Daniele Bresciani, Vanity Fair 17/06/2009, 17 giugno 2009
LASCIATEMI CANTARE
Salman Rushdie ha gli occhi piccoli, sopracciglia ad angolo che lo fanno assomiglioare a una caricatura di Tullio Pericoli, e la bocca, incornicata da un pizzetto brizzolato, è una fessura sottile, che si muove appena quando parla.
E’ il volto, un pò cupo, che per tanto tempo ha fatto mostra di sè sulle quarte di copertina dei suoi libri e che tanti di noi ricordano: è quello dello scrittore indiano colpito dalla fatwa, la condanna a morte per blasfemia emesa dall’ayatollah Khomeini nel febbraio 1989 dopo la pubblicazione dei Versi satanici e che ha vissuto 9 anni sotto scorta.
Poi c’è il Salman Rushdie che ho conosciuto a Firenze in quello che lui stesso ha definito più volte a very remarkable day, «un giorno memorabile». E’ quello che apre il suo volto al sorriso (e succede molto più spesso di quanto si possa immaginare), che non perde l’occasione per fare una battuta, che imita l’inglese stile ispettore Clouseau di Jeanne Moreau, ricordando una serata con lei a New York. E’ quello che si muove con l’emozione di un bambino in un negozio di giocattoli davanti ai capolavori della Galleria degli Uffizi (arrossendo quando un guardiano lo riprende perché fotografa con il flash la Venere del Botticelli) e che tra un Leonardo da Vinci e un Donatello racconta di quanto si è fortunati durante questi tour: come quando andò a tenere una lezione a Oxford nel Mississippi solo per visitare la casa di William Faulkner e, avendo due ore da aspettare a Memphis, al professore che gli chiedeva se desiderava visitare qualcosa nell’attesa rispose «Graceland» «Incredibile: nello stesso giorno la casa di Faulkner e quella di Elvis»).
Ed è quello che vedete nelle foto di questo servizio, scattate nelle sale di Palazzo Vecchio e nello studio che fu di Niccolò Machiavelli, uno dei protagonisti dell’ultimo romanzo - il decimo - di Rushdie, L’incantatrice di Firenze, una favola ambientata nel ’500 tra l’India dell’Impero Mogul e la corte dei Medici e popolata di personaggi realmente esistiti. Il libro è stato presentato appunto nella città da cui prende il titolo, in una stracolma Sala grande del Palagio di Parte Guelfa: più di 300 persone che hanno fatto la fila prima dell’evento per prendere posto (ma chi non ha trovato una sedia si è seduto per terra) e dopo per farsi firmare una copia. E l’emozione di Rushdie era palpabile: «Sì, un giorno memorabile. Presentare un libro nella città dove è ambientato non capita spesso. E poi questa città, che considero ormai un pò "mia", ha un significato speciale per me. Ci sono stato per la prima volta da studente: avevo 19 anni, pochi soldi in tasca, e tanta voglia di vedere e capire le cose che stavo studiando sui libri. Era il 1966, ed erano ancora evidenti le ferite dell’alluvione. Ma era una città che aveva voglia di rinascere e di tornare a splendere. Ho anche ricordi divertenti di quell’estate. Una sera ero seduto su una panchina vicino al Duomo e arrivò una Cadillac bianca inseguita da una folla di persone: c’era Monica Vitti. Che attrice straordinaria. E che anni straordinari».
Mister Rushdie, uno dei protagonisti dell’Incantatrice di Firenze è Akbar il Grande: è corretto dire che si tratta di uno dei sovrani più illuminati dell’Impero islamico dei Mogui, quello che regnò in India per oltre quattro secoli?
«Sì, Akbar, come si capisce dal libro, era senza dubbio un imperatore aperto al dialogo con le altre religioni. E capisco che possa sembrare strano che proprio io voglia in qualche modo elogiarlo. Sia chiaro: come tutti i dittatori detestava chi era in disaccordo con lui ed era pur sempre un uomo capace di buttare personalmente un rivale dalla torre più alta del palazzo e, resosi conto che il poveretto non era morto, di riportarlo su e ributtarlo di sotto, accertando questa volta che cadesse a testa in giù… Ma pur essendo un analfabeta e un guerriero feroce, aveva intuizioni che miravano all’armonia del suo popolo. Certo, un secolo dopo Albar salì al trono Aurangzeb, che invece si distinse per la sua crudeltà: un assassino e un iconoclasta, cercò di convertire con la brutalità tutti i suoi sudditi alla religione musulmana, distrusse oggetti d’arte e costruzioni che non fossero legati all’Islam. Insomma, un vero bastardo. Se Akbar è Obi Wan Kenobi, Aurangzeb è Dart Fener».
Nell’India di oggi il dialogo religioso è ancora difficile?
«Non lo sarebbe se non ci fossero gli esaltati. Pensi a uno come Lal Krishna Advani, il leader del BJP, il partito fondamentalista indù. Uno che ha tentato di rinnegare anche le cose buone dei sovrani islamici, magari anche riscrivendo i libri di scuola: l’ultima volta che successe fu dopo la fine del colonialismo».
Con le ultime elezioni e la vittoria di Sonia Gandhi qualcosa potrebbe cambiare?
«Difficile dirlo. Lo spero, certo, anche perché l’India è un Paese che cresce a grande velocità e che ha bisogno di buoni leader. Speriamo anche nel figlio di Sonia, Rahul, la "quarta generazione" di Gandhi (che, ricordiamolo, non ha nulla a che fare con il Mahatma, anche se fu proprio Indira a incoraggiare questa confusione per ragioni molto chiare). Rahul è un giovane uomo di 37 anni, che ha fatto il doppio dei comizi rispetto al primo ministi o uscente, Manmohan Singh, e che a detta di molti è stato la vera chiave del successo di Sonia. Mi ha molto colpito quando ha detto di essere ancora troppo giovane per poter pensare al ruolo di leader, di non avere l’esperienza necessaria, anche se sono sicuro che avrà qualche incarico importante nel governo».
Sempre a proposito di religione, nel suo libro scrive: «Se non ci fosse stato un Dio, pensò l’imperatore, forse sarebbe stato più facile capire cos’era il bene». Ci spiega questo concetto?
«Penso che se c’è qualcuno che ti dice che cosa è giusto e che cosa è sbagliato, che cosa devi o non devi fare, tu non hai motivo di sforzarti e di ragionare su questi valori con la tua testa. E credo sia un male. Pensi solo al fatto che noi cambiamo opinioni su un sacco di argomenti, dalla politica alle cose più leggere, ma quasi ognuno di noi eredita semplicemente la religione dei propri genitori. Se tuo padre e tua madre sono cristiani, musulmani, indu o ebrei tu sei di conseguenza cristiano, musulmano, indù o ebreo. E quasi sempre senza porsi il minimo dubbio. E’ giusto?».
Lei vive ormai tra Londra e New York, quindi è «un po’ americano»: cambierà qualcosa con la presidenza Obama?
«lo credo molto in lui e ho enormi speranze. Ho solo una grande paura: dopo la chiusura di Guantanamo, temo che quasi la totalità dei detenuti rilasciati, prima o dopo, tornerà alla jihad. Dio non voglia che uno di loro venga scoperto mentre trama o - peggio - porta a termine un attentato terroristico. Sarebbe la fine di Obama».
Ancora dall’Incantatrice: Machiavelli mette in guardia la protagonista, arrivata a Firenze, e la invita a «sapere sempre dov’è la porta di servizio» e a prepararsi una via di scampo: qual è stata la sua nei momenti più difficili?
«Nella vita reale la via di fuga non c’è mai: devi affrontare quello che ti succede e non hai scorciatoie. Diciamo però che quello che mi ha aiutato è stato proprio scrivere. C’è una bellissima scena nel film Shakespeare in Love, quando Joseph Fiennes-Shakespeare, dopo aver steso dei versi, si alza di scatto dallo scrittoio, stringe i pugni ed esclama: "Dio quanto sono bravo!". Ecco, quella è una sensazione impagabile».
Lei come Shakespeare, quindi?
«Non scherziamo: io sono al piano terra e lui in cima al grattacielo. Però quello che dico è che uno scrittore sa sempre quando il proprio lavoro riesce bene. A patto di limitarsi a fare quello che si sa fare. E il motivo per cui, per esempio, pur amando tanto il teatro e il cinema, non mi sono mai misurato con questi settori».
Non è dei tutto vero...
«Certo, avevo adattato per il teatro I figli della mezzanotte e quest’estate lavorerò alla sceneggiatura per il film, che verrà realizzato l’anno prossimo. Sarà una prova difficile: dovrò rileggerlo dopo tanti anni e tagliare. Ma se c’è uno che lo può fare senza timori, quello sono io».
Per molti quello resta il suo libro migliore: è d’accordo?
«Per me è impossibile dirlo: in tutti i miei libri c’è una parte di me e sarebbe come chiedere a un genitore a quale figlio vuole più bene. Quello che è certo è che però quello è il libro di un uomo di trent’anni, e che oggi io non sono più quel giovane e non scrivo più così».
Lei però in qualche modo è entrato anche nel mondo della musica, scrivendo una canzone diventata famosa.
«Sì, The Ground Beneath Her Feet, degli U2. E’ stata una bella esperienza, anche perché loro difficilmente prendono testi di altri, se si escludono magari le canzoni tradizionali irlandesi. E da lì è nata anche una amicizia speciale, soprattutto con Bono e The Edge».
Andrà a vederli in concerto per questo nuovo tour?
«Sì: sono nella fortunata condizione di essere quasi un membro onorario della band e mi basta chiamarli e dirgli quando voglio andare. Mi è capitato anche di meglio, con loro. Nell’agosto del ’93 ero a Wembley, per il loro concerto. Dopo i bis, Bono mi ha chiesto di salire sul palco: erano gli anni bui della mia vita. Poco prima che mi portassero dietro le quinte, mio figlio Zafir, che aveva assistito allo show con me, mi disse: "Papà, ti prego, non cantare". lo gli risposi che, se me l’avessero chiesto, non mi sarei potuto tirare indietro. E lui: "Se canti mi ammazzo"».
Come finì?
«Mi limitai a fare un breve discorso e ad abbracciare Bono. Ma sa qual è la cosa divertente? Oggi mio figlio, che ha 30 anni, mi dice: "Papà, dovevi cantare"».