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 2009  giugno 12 Venerdì calendario

OGNI 98 MINUTI NASCE UNA NUOVA PAROLA INGLESE


Il Global Language Monitor, che ha sede in Texas, ha registrato la milionesima parola inglese. Secondo i criteri richiesti, la parola è stata usata in libri o su Internet almeno 25 mila volte. Il professor David Crystal, un’autorità linguistica nel mondo anglosassone (autore di Global English e English and the Internet) è invece certo che il traguardo è stato raggiunto già anni fa. A dire il vero, ogni 98 minuti viene inventata una nuova parola inglese.
L’Oxford English Dictionary ha soltanto 615.100 parole, illustrate da 2.436.600 citazioni, dalla prima volta che è stata usata ai cambiamenti di senso, dato che l’inglese da sempre prende una parola e ne adatta il senso, un po’ come la Common Law o la Costituzione americana con i loro casi giuridici. Gli Stati Uniti usano ancora oggi casi giuridici antecedenti al 1776, data dell’indipendenza americana.
E una semplice parola anglosassone come «set» ha 460 usi diversi.
La milionesima parola viene invece da Internet, che, assieme all’Asia, dove oggi l’inglese è la seconda lingua, è la fonte principale di nuove parole. Il termine è Web 2.0 (il cosiddetto semantic Web, la nuova generazione della Rete). La 999.997ª parola è invece slumdog, la 999.998ª il tipico saluto hindi Jai Ho («possa tu essere vittorioso», il leitmotiv della colonna sonora del film The Millionaire), la 999.999ª N00b, che nel linguaggio di Internet significa un nuovo membro di una comunità di giocatori on line, mentre la 1.000.001ª è financial tsunami. Altri termini recenti sono: sexting (scrivere in modo sexy), quendy-trendy (alla moda), Mobama (la First lady Michelle Obama), chiconomics (la moda al tempo della recessione), zombie banks (le banche che fallirebbero senza aiuti statali).
Niente panico, se dovete imparare l’inglese. La maggior parte di chi parla la madrelingua se la cava con 14 mila parole e solo i più colti arrivano a usarne 50-70 mila. Ed è possibile comunicare in inglese con 400 parole e 40 verbi. E, come sottolinea il professor Crystal, anche il predominio dell’inglese in Internet è declinato dall’80 per cento di qualche anno fa al 65 per cento di oggi, mentre le lingue usate in Rete sono salite a 1500. E già il 75 per cento del mondo è naturalmente bilingue. Crystal è di madrelingua gallese e dice che «come vediamo l’inglese espandersi vediamo che comincia a riflettere gli usi locali. Quando un popolo adotta una lingua comincia subito ad adattarla. Così si salvano anche le differenze culturali, anche se in modo nuovo». Il miglior inglese scritto e parlato lo troviamo oggi in India e Pakistan, mentre i premi Nobel sono Wole Solinka, nigeriano, Derek Walcott e V. S. Naipaul, dai Caraibi.
«Una lingua è un dialetto con un esercito e una marina». Una lingua è anche l’estensione di un potere politico, economico, tecnologico e culturale. Il Samuel Johnson, il primo lessicografo inglese, scrisse nella sua introduzione del suo 18° Dizionario: «Il commercio, tuttavia, così come rovina i costumi, corrompe le lingue, ci sono scambi continui con gli stranieri, che, con le loro esigenze, finiscono per parlare un dialetto senza senso».
L’inglese, in particolare, è un aspirapolvere e lo è stato fin dal suo arrivo in Gran Bretagna dal Continente europeo, e ha preso a prestito (o prestato), da 350 altre lingue. Molte delle parole che oggi l’Académie Française e la Crusca respingono, sono solo di ritorno, come per esempio computer. L’80 per cento delle parole inglesi sono prese a prestito e riflettono la globalizzazione dei commerci: cioccolato, caffè, tè, banana, bungalow, ok e pigiama. Si potrebbe pensare che la «pronuncia idiosincratica» dell’inglese gli avrebbe impedito di diventare una lingua mondiale, ma è proprio la sua anarchia che è la sua forza. Gli inglesi dovrebbero parlare il danese degli invasori vichinghi o il francese dei normanni. Invece l’inglese è diventato un patois ed è sopravvissuto per dominare gli invasori, adattando le loro lingue.
Nel 1006, quando arrivarono i normanni francesi, l’inglese aveva 50 mila parole, ai tempi di Chaucer erano 100 mila con l’aggiunta dei termini astratti di governo di matrice francese e latina, ad esmepio parole come Parlamento. Il pastore-contadino anglosassone (shepherd o swineherd) badava alle pecore (sheep) e maiali (pig) mentre il contadino normanno (farmer) mangiava mutton (montone, mouton), pork (porco, porc) e ham (prosciutto, jambon). Il Rinascimento lo fu anche per la lingua, se non altro per la traduzione della Bibbia, e il lessico dei tempi di Shakespeare contava già 200 mila lemmi.
Va detto che allora come adesso il linguaggio veniva dal basso e non dall’alto, da una fontana zampillante di argot. Quando Samuel Johnson, padre del giornalismo, compilò il suo primo Dizionario, lo fece con la mentalità imprenditoriale delle nuova classe commerciale dell’Impero britannico della metà del Settecento. Mentre ci vollero 20 anni alla Crusca per completare il suo Vocabolario, dal 1612 al 1632, e i 40 membri dell’Académie Française impiegarono dal 1639 al 1694 a «purificare la lingua francese». Johnson, lavorando a tempo pieno come giornalista, scrisse il Johnson’s Dictionary dal 1746 al 1755, con l’aiuto di sei giovani amanuensi, definendo 40 mila parole con 114 mila citazioni letterarie. Era un progetto commerciale: un consorzio di editori pagò 1575 sterline a Johnson e vendette 2000 copie a 80 sterline l’una. Nessun aiuto o ingerenza dello Stato, con i suoi «on dit» o «si dice».
Le definizioni di Johnson sono descrittive e piene di humour. Lessicografo: scrittore di dizionari, innocuo rompiscatole. Padrone: comunemente un disgraziato che partecipa al lavoro con insolenza e viene pagato con adulazione. E così via. L’inglese è sempre stato liberamente deregolato, e mentre diventa ancor più una lingua mondiale corre il rischio di diventare inco