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 2009  aprile 21 Martedì calendario

I MIEI RUBLI ERANO DOLLARI


Compagno Cossutta, i riformisti conquistano Botteghe Oscure. Tutto poteva essere previsto ma non questo. Ho trascorso ininterrottamente 25 anni a Botteghe Oscure e non avrei ai immaginato che finisse così. Per questo provo un’invidia tremenda per voi e il vostro direttore Antonio Polito, ho una grande e profonda nostalgia per quel palazzo.
Seduto nel suo ufficio al comitato nazionale dell’Mpi, l’Associazione nazionale dei partigiani, Armando Cossutta divide il suo quarto di secolo passato alla direzione del Pci in via della Botteghe Oscure in due fasi. Una «totalmente interna», l’altra «esterna». La prima va dal 1966 al 1975 ed è quella che vede Cossutta depositario di un potere enorme: coordinatore della segreteria, sovraintendente alle finanze, capo della vigilanza (la sicurezza) e custode dei rapporti con il Pcus, il Partito Padre di Mosca. Enrico Berlinguer disse: «Il compagno Cossutta ha assommato un grande potere del quale, peraltro, non ha mai abusato». Nel 1975, Cossutta passò dal secondo piano della segreteria al terzo, per occuparsi di enti locali. Ebbe fortuna: quell’anno il Pci fece la storica avanzata alle elezioni amministrative.
Cossutta rimase al terzo piano fino al 1991, l’anno della dolorosa scissione di Rifondazione comunista. Ma il racconto dei suoi anni a Botteghe Oscure è soprattutto il racconto della notte più drammatica che Cossutta ha vissuto in questo palazzo: quella tra il 20 e il 21 agosto del 1968. Ore convulse in cui fu lui, il comunista ortodosso per antonomasia, l’uomo dello strappo da Berlinguer quando questi dichiarò esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d’Ottobre dopo i fatti di Polonia, fu lui, dicevamo, a comunicare all’ambasciatore sovietico in Italia il dissenso del Pci sull’invasione di Praga.
Era il 20 agosto e lei era a Botteghe Oscure.

La grande tradizione del Pci preve deva che qualcuno rimanesse alla direzione anche nei giorni di Ferragosto. Quell’anno ero di turno io e nel pomeriggio stavo presiedendo una riunione coi cineasti comunisti sulla mostra di Venezia. Ricordo che toccava a Luciano Gruppi tirare le conclusioni. Erano le diciotto quando entrò la mia brava segretaria Carla Perozzi che mi disse: «C’è Enrico Smirnov».

Che lavorava all’ambasciata sovietica.

Esatto. Era il primo segretario dell’ambasciata sovietica in Italia. Parlava la nostra lingua perfettamente. Alla mia segretaria risposi: «Digli se può aspettare». Lei mi ribadì che era urgente. Chiesi scusa ai compagni cineasti e uscii. Smirnov mi riferì che l’ambasciatore Nikita Rijov doveva farmi una comunicazione assolutamente riservata. Smirnov non volle anticiparmi nulla e io, sinceramente, credevo fosse una cattiva notizia sulla salute del segretario Longo, in vacanza in Unione Sovietica.

Non pensò al compagno Dubcek?

No. Anche perchè negli ultimi tempi c’era stata una schiarita nei rapporti tra Mosca e Praga. Eravamo convinti che si arrivasse a un accordo. Per questo, malgrado la situazione, erano quasi tutti partiti per le ferie. Pecchioli e Pajetta anche loro in Unione Sovietica, Berlinguer in Romania, Amendola in Bulgaria.

lnvece?

Andai in auto con Smirnov e continuai a insistere sulla misteriosa comunicazione. Lui era un uomo freddo, gelido ma un certo punto cominciarono a scendergli delle grosse lacrime. Non disse nulla però. In via Gaeta, dov’era la loro ambasciata, vidi tutto illuminato. Entrai e Rijov mi fece la comunicazione: «Su invito del governo e del Partito comunista della Cecoslovacchia le truppe del Patto di Varsavia sono entrate in Cecoslovacchia». E aggiunse: «Mi raccomando la riservatezza, lei è il primo a saperlo nel mondo». Lo ringraziai e gli dissi: «Lei sa che la nostra posizione è contraria». Poi andai di corsa a Botteghe Oscure, declinando l’invito di Rijov a prendere un tè.

Che ore erano?

Le sette di sera. A Botteghe Oscure convocai per le ventuno tutti i compagni della direzione che erano rimasti in Italia. Fissai la riunione alla redazione dell’Unità in via dei Taurini, allora diretta da Maurizio Caprara, per avere altre notizie. Ma conferme non ne arrivarono. Il primo titolo fu: «Intervento a Praga?». Tornai a casa, feci una doccia e a mezzanotte mi telefonarono dall’Unità: «Compagno l’intervento c’è stato».

Lei tornò a uscire?

Sì, a mezzanotte. Stavolta ci riunimmo a Botteghe Oscure. Ingrao e Napolitano furono incaricati di scrivere il commento di condanna. Era l’alba quando lo lessi per telefono a Longo, che mi disse: «Il dissenso non basta, aggiungete la riprovazione».

Una notte infinita.

Si fece mattina e io continuai a lavorare. In genere, con Longo la segreteria si riuniva tutti i giorni meno il lunedì e il sabato. Si iniziava alle otto e mezzo. lo preparavo l’ordine del giorno e Longo mi faceva sempre mettere al primo punto una questione che potesse interessare tutti.

Perché?

Per la puntualità. Erano tutti personaggi coi coglioni e Longo conosceva le loro abitudini. C’era anche la regola dei giornali, in riunione nessuno poteva sfogliarli. Longo si infastidiva, bisognava averli letti prima. Fu lui poi a introdurre per la prima volta nell’Ufficio politico il voto segreto. Accadde alla fine degli anni sessanta, bisognava decidere su uno sciopero generale per le pensioni. Lui prese il suo cappello di paglia e lo usò come urna.

Veniamo ai soldi: lei era il sovraintendente alle finanze.

Un ruolo che era stato già di Pietro Secchia e dello stesso Longo. lo trattavo ogni anno con Mosca l’entità del contributo ma i soldi erano prelevati materialmente dall’amministratore Barontini, un amico fraterno. Erano dollari che poi venivano cambiati in lire nella Città del Vaticano. Era lo stesso cambiavalute che usava la Dc coi finanziamenti americani. Ricordo che in quegli anni coi soldi sovietici aiutavamo i comunisti dell’America latina, della Spagna e soprattatutto della Grecia.

Il Pci aveva l’incubo dei colonnelli.

Longo mi disse di accumulare riserve per sopravvivere due anni. La strategia della tensione aumentò fortemente il timore di una situazione non controllabile. Consegnavo i soldi a compagni fidati. Metterli in banca non dava sicurezze in caso di golpe.

Poi venivate spiati.

Cossiga vi ha detto che i servizi italiani sparavano microspie nelle nostre finestre dal negozio di tessuti che era di fronte. Verissimo. Fui io a scoprire la spia interna che ci riferì queste cose. Era un compagno. Lo aveva fatto per soldi. Si chiamava Mario Stendardi.

Nel 1975 è salito al terzo piano, agli enti locali.

Un anno glorioso, un elenco impressionante di città conquistate.

Ci è rimasto fino al 1991, al terzo piano.

Il mio ultimo giorno è stato silenzioso. Ebbi un colloquio con Occhetto e andai via. Ero triste e depresso. La storia del Pci poteva essere diversa, il suo crollo improvviso ha bisogno ancora di riflessioni profonde. In Italia ci sono milioni di comunisti che non si sentono più rappresentati. C’è da spararsi con questa povera sinistra italiana.

Chi ha votato alle ultime elezioni?

Il Pd di Veltroni.

Cossutta non è più comunista?

Al contrario: ero, sono e resterò un comunista.