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 2009  aprile 03 Venerdì calendario

FIGLI DI UN BOB MINORE


Ci sono favole nello sport sempre più difficili da raccontare. Una di queste narra le mirabolanti imprese della Giamaica del bob, accompagnate fino a tre anni fa dai tormentoni pubblicitari che annunciavano le olimpiadi di Torino. Quell’equipaggio, testimonial di auto e furgoni, era protagonista di scanzonati spot e rappresentava un traguardo della rivalsa sociale: uomini dei ceti medio-bassi dei Caraibi, ovvero sole-mare-spiagge, andavano a vestire i panni borghesi di uomini delle nevi. Brrr. Impossible is nothing.
La storia e le statistiche hanno però dimostrato che la scalpitante Giamaica del bob è uno dei più longevi bluff della storia degli sport invernali. Tanta pubblicità e simpatia, poca sostanza. La favola la tirano fuori ogni quattro anni, viaggia al ritmo di manifesti e contratti milionari ma si ferma contro i dati impietosi della macchina del tempo. I colossi giamaicani, figli della stessa atletica che ha fatto scoppiare i fulmini Usain Bolt e Asafa Powell, sul ghiaccio non sono mai riusciti a tramutare la potenza in potere, né la simpatia in gloria.
La favola è lunga 21 anni. C’era una volta l’olimpiade canadese di Calgary, era il 1988. Al cancelletto del bob si presenta un equipaggio guascone tutto muscoli e sorrisi. Da stropicciarsi gli occhi. Il team, allenato da un americano, è composto da: un luogotenente dell’esercito, un capitano dell’aviazione, un pilota, un privato e un ingegnere delle ferrovie. Perdono il controllo del bob e fanno crash, ma l’operazione «più ghiaccio per tutti» è avviata. I figliocci di Bob Marley, inscatolati in un altro Bob, ispirano un film della Disney, Cool runnings. Arriva la notorietà, fiorisce il merchandising. I giamaicani piacciono perché la loro è una bella sfida al luogo comune, un inno allo sport e al meraviglioso rimpasto delle latitudini.
Dopo un inizio tutto ribaltamenti e cerotti, i pirati dei Caraibi scalano (si fa per dire) le classifiche mondiali, riaffiorando solo e sempre ogni quattro anni: 14° posto nel bob a quattro e 10° nel bob a due a Lillehammer nel ’94, 21° posto nel bob a quattro a Nagano ’98. Interludio nel 2000: vincono l’oro ai mondiali di spinta e tutti cominciano a temerli. Ma nel 2002 a Salt Lake rimediano solo un inguardabile 28° posto nel bob a due. Per Torino 2006 la Fiat decide di cavalcare l’onda giamaicana diventando partner, e poi anche tutor, della travolgente Giamaica. Obiettivi misti: picconare le barriere e portare il team ai Giochi fatti in casa. Con il nero su bianco, l’effetto è garantito.
E così i marines della nazionale più commercializzata del mondo salgono e scendono da furgoni e berline come orsetti ammaestrati. Tra uno spot e l’altro si potenziano in palestra. Il pacchetto di sostegno all’operazione Giamaica si aggira sui sei milioni di euro spalmati su quattro anni. I soldi servono per pagare agli atleti sessioni di allenamento dall’Europa al Nord America, ma il problema più serio non viene risolto. E’ quello dei materiali, ovvero i bob. I giamaicani partecipano alla Coppa del Mondo affittando i siluri sulle piste di gara: come se Valentino Rossi corresse con una moto che gli danno sul momento, con le regolazioni fatte a spanna. I giamaicani hanno il fisico, ma lo mettono dentro l’abito sbagliato.
Non solo. L’indole dei caraibici non può fare a meno di scontrarsi con usi e costumi diversi. A un pranzo in un albergo di Sestriere, quando viene servito il risotto al barbera, ai super-atleti viene quasi un malore quando gli viene spiegato che il barbera è un vino: «Ragazzi, il vino si beve, mica si mangia!». Inorriditi, passano subito al brasato al barolo. Con vino e superalcolici i super-atleti vanno d’accordo, molto più che con le specialità piemontesi e l’acqua di montagna.
L’ultima versione patinata della Giamaica aveva un leader carismatico di nome Winston Watt: 37 anni, soldato dell’esercito, fisico impressionante e sguardo acquoso. Poi c’erano Wayne Blackwood, Clive Mc Donald e Wayne Thomas, diventato poi allenatore. Thomas, 38 anni, coach di atletica con la passione per il canto, era un armadietto a tre ante: 114 kg compressi in un metro e 75 di altezza. Mc Donald era rappresentante di commercio, Blackwood un altro soldato. Due boiler.
Il carismatico Winston Watt era la storia. La sua leggenda durava da Calgary. Nell’estate 2005, ai test atletici di Sestriere, disse ai giornalisti lumando le cameriere del solito albergo: «A Torino 2006 ci saremo, potete scommetterci. Non solo vogliamo partecipare, ma anche migliorare i risultati di questi anni. Teneteci d’occhio». Entusiasmo, proclami e tormentoni non sono però bastati. Per motivi logistici e per una buona dose di presunzione, la Giamaica decide di giocarsi tutto nell’ultimo round di qualificazione in Germania a un mese dai Giochi. Va male. All’appuntamento si presenta mezzo mondo e una fetta di quel mezzo mondo gli passa davanti. Tipo il Brasile, che si qualifica a sorpresa. Altra spiaggia, altro mare.
La notizia passa quasi inosservata, bravi i media in questo caso. Molti si accorgono che la Giamaica non c’è seguendo in tv la sfilata delle nazioni alla cerimonia d’apertura. Resta in piedi solo l’operazione-simpatia. Agli stand olimpici nelle piazze-salotto di Torino i gadget della Giamaica vanno a ruba, ma intanto in pista ci vanno gli altri. Il coach, affranto: «Il problema è sempre lo stesso: siamo dei giramondo, i bob li affittiamo nelle piste dove andiamo ad allenarci e a gareggiare. Solo che non sempre ci troviamo bene con quello che ci passano. E’ stata una lezione importante. Ora la prima cosa che faremo è procurarci dei bob all’avanguardia. La vita continua, la nostra storia deve continuare: ci sentiamo già pronti per la prossima olimpiade».
Tu li hai visti? Oggi, a un anno da Vancouver, la Giamaica del bob è ancora latitante. Nel ranking mondiale è lontana come un’eco. Il team sta cercando nuovi finanziatori di favole in America ed ha eletto suo quartier generale Salt Lake, non molto distante dal Canada. Vanno avanti senza un progetto vero, un progetto che si basi su una continuità. Puntano sempre sull’effetto mediatico, ma prima o poi anche fascino ed incanto perdono peso. Fisicamente gi atleti giamaicani sono delle belve, ma manca tutto il resto. C’è il colore, non la sostanza.
Ecco come giudica il fenomeno-Jamaica Ivo Ferriani, capo coach delle nazionali azzurre, che ha già inanellato cinque olimpiadi nel bob: una da atleta (Calgary), tre da tecnico (un bronzo nel bob a due a Lillehammer ’94 con l’Italia, un bronzo nel bob a quattro con la Francia a Nagano ’98, un quinto posto nel bob a quattro con il Canada a Salt Lake nel 2002) e una da organizzatore (competition-manager a Torino 2006): «Il cliché della Giamaica si sta consumando. Quello che servirebbe è un grande allenatore: un leader vero e uno che metta in riga gli atleti, facendogli fare davvero gli atleti. Personalmente credo che quella della Giamaica sia per un coach una delle sfide più interessanti in circolazione: un paese tropicale che si impone in uno sport invernale. Il fatto che abbiano problemi ad allenarsi sembra più un alibi. Gli stessi problemi li incontrano ad esempio gli inglesi e tanti altri team di secondo piano che però lavorano bene».
Ferriani porterà l’Italia a Vancouver, dove scadrà il suo contratto. Potrebbe essere lui uno dei candidati alla «panchina» della Giamaica in vista delle olimpiadi di Sochi 2014, sempre che la favola dei figliocci di Bob, tattaratta-rattà, non sia finita o sia ancora credibile dopo tutti questi fumosi anni di rhum con ghiaccio.