Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  marzo 31 Martedì calendario

Sergio Romano VALORE DEL SOLDATO ITALIANO TRA REALT E LEGGENDA Corriere della Sera, venerdì 3 aprile Condivido la proposta di parlare di Guillet nelle scuole

Sergio Romano VALORE DEL SOLDATO ITALIANO TRA REALT E LEGGENDA Corriere della Sera, venerdì 3 aprile Condivido la proposta di parlare di Guillet nelle scuole. Secondo uno studio americano, «A call to heroism», oggi i giovani sono alla ricerca di eroi a cui ispirarsi e in assenza di modelli validi raccattano quelli che la moda offre loro. Ben venga quindi il ricordo di chi ha onorato l’Italia, ma non è solo questo il tema. Di eroi non difetta l’Italia, ma di vittorie ne conta poche. Guillet è stato eroe solitario, eccezione alla regola. Perché questo avviene? Secondo Machiavelli nel battersi gli italiani da soli primeggiano, ma perdono quando si mettono assieme. Il problema è l’Italia, non la carenza di virtù militari dei suoi. Pochi giorni fa due generali mi hanno detto «oggi tutti rispettano i soldati italiani». Confermo, per fonti estere di prima mano, ma nei primi quarant’anni della Repubblica non l’avrebbero detto. A «sdoganare», in Patria e fuori, i soldati sono stati loro stessi, il loro sapere misurarsi in impegni oltremare rischiosi e difficili. Anche di loro quindi gioverebbe parlare a un popolo in crisi d’identità e sfiduciato, pur senza farne modello di patrie virtù come fece Adriano con i suoi legionari. Perché però sia proficuo l’incontro fra cittadini e soldati il loro orgoglio solitario non basta, occorre che questi ultimi sappiano che il Paese li apprezza e sostiene. Senza un’Italia forte e tenace alle spalle che cosa mai motiverebbe un soldato? Osserva lo storico John Keegan: «Nella Prima guerra mondiale, gli italiani si sono battuti con altrettanto valore di alleati e nemici, ma con inspiegabile rassegnazione». Rassegnazione, diffusa anche nella Seconda guerra mondiale, come nel caso, non unico, di Cefalonia. Dibatterne, scoprirne le cause aiuterebbe gli italiani a comprendere non solo i soldati ma anche se stessi. Non crede? Luigi Caligaris, Roma Caro Caligaris, La cattiva fama degli ita­liani sul campo di bat­taglia cominciò a dif­fondersi in Europa dopo la calata di Carlo VIII nella peni­sola e le terribili guerre che la straziarono da allora per parecchi anni. Machiavelli ne era consapevole e dedicò all’argomento alcuni capitoli del «Principe». Sostenne che il maggiore vizio militare de­gli Stati italiani era l’uso di milizie mercenarie, e fece di queste, nel capitolo XII, un ri­tratto spietato: «Dico adun­que che (...) le mercenarie e ausiliarie sono inutile e peri­colose: e se uno tiene lo Sta­to suo fondato in sulle arme mercenarie, non starà mai fermo né sicuro; perché le so­no disunite, ambiziose, san­za disciplina, infedele: ga­gliarde fra gli amici, tra e ne­mici vile: non timore di Dio, non fede con gli uomini; e tanto si differisce la ruina quanto si differisce lo assal­to; e nella pace se’ spogliato da loro, nella guerra da’ nimi­ci. La cagione di questo è che non hanno altro amore né al­tra cagione che le tenga in campo che uno poco di sti­pendio, il quale non è suffi­ciente a fare che vogliono morire per te. Vogliono bene essere tua soldati mentre che tu non fai guerra, ma come la guerra viene o fuggirsi o andarsene». Non bastava naturalmente che le milizie fossero nazio­nali anziché in tutto o in par­te straniere. Occorreva an­che e soprattutto che i solda­ti sapessero di essere guidati da un principe forte e risolu­to, capace di sconfiggere l’Ita­lia delle fazioni, dei particola­rismi, dei patriottismi muni­cipali, degli egoismi familia­ri e tribali. Credemmo che l’Italia unitaria avrebbe fatto il miracolo, ma le tre sconfit­te dei primi 35 anni del Re­gno (Custoza, Lissa, Adua) e la rottura del fronte a Capo­retto nel 1917 ebbero l’effet­to d’installare nel corpo della nuova nazione quella combi­nazione di scetticismo e au­to- denigrazione che è anco­ra oggi uno dei suoi vizi peg­giori. Gli uomini di governo ne erano consapevoli e Mus­solini, in particolare, sperò che qualche trionfo militare avrebbe ridato agli italiani la fiducia in se stessi. Ma la leg­gerezza con cui gettò il Paese nella Seconda guerra mon­diale produsse, come sappia­mo, l’effetto opposto. Credo anch’io, caro Caliga­ris, che una nuova generazio­ne di militari abbia appreso le lezioni del passato e dato alle forze armate italiane, du­rante gli ultimi vent’anni, una maggiore credibilità. Do­po avere lungamente e inutil­mente resistito all’abolizione della leva, i vertici militari hanno saputo gestire la tran­sizione e inviare all’estero missioni che si sono distinte per serietà, buon senso, effi­cacia. Rimane naturalmente una prova, quella del fuoco, che governo e Parlamento, in questi ultimi anni, hanno cercato di evitare. Credo che le forze armate siano pronte ad affrontarla. Mi chiedo se il Paese e la classe politica sia­no altrettanto pronti.