Marcello Veneziani, Sud, 3 aprile 2009
ZIA NINETTA
Per chi è lontano dalle sue origini meridionali, il Sud è una vecchia zia. Zia Ninetta è un personaggio chiave della mitologia famigliare; mangiava come un lupo, per dirla con le sue parole. Nata a Grumo Appula, vent’anni in meno per i frastieri (perché fino a poco tempo fa barava sugli anni), zia Ninetta è rimasta nei secoli vacantina perché non avrebbe mai sopportato avere un uomo accanto; le avrebbe sporcato casa, infastidito a letto, preteso servizi, stirate e pranzetti che zia Ninetta non voleva fare. ’Nzia niai. Così è rimasta la signorein per antonomasia. Per non sporcare casa andava a farsi il bagno di notte «sus o’ ascher» (sul terrazzo).
Zia Ninetta ha vissuto ad alto volume; quando gli altri parlavano, lei gridava; era impaziente, in treno si sedeva avanti per scendere prima e agli appuntamenti arrivava sempre in pauroso anticipo o se si doveva uscire insieme aspettava sulla soglia con l’ascensore già aperto per dare fretta e ansia. Ai negozi e con il prossimo battagliava, combinava matrimoni e s’impicciava della privacy con un altruismo militante. Se andavi insieme a lei a fare la spesa te ne dovevi scappare per la vergogna, tirava sul prezzo e disprezzava la roba per deprezzarla. Se le chiedevano, per dire, trentottomila lire, lei proponeva di arrotondare: non a trenta ma a ottomila lire. E non mollava la presa fino a che non sfiniva il mercante. Da bambino mi nascondevo la faccia quando entravo in un negozio con lei. In treno attaccava bottone con tutti e violava la loro intimità, anzi, come lei diceva, «tirava le cime di rape»; insinuava amori proibiti, evocava amanti immaginarie davanti alle mogli e spesso faceva arrossire la gente perché pretendeva di combinare fidanzan tenti tra due viaggiatori estranei che a suo insindacabile giudizio stavano bene insieme: «Ma il giovane tiene la simbatia per la signorina» insinuava. «Non vedi ce bera fatt, e lui, ce bell giovene, ce pezz d’omene.» E se lui si tirava indietro, faceva pesanti insinuazioni sulla sua virilità: «Ma è nu poc vulz?» (invalido, impotente).
Al cinema si portava tre nipoti e pretendeva di farli entrare con un solo biglietto ridotto, anche quando i nipoti «avevano fatto lo sviluppo». In sala, una volta, un maniaco le fece la mano morta, e lei infilzò la pellecchia del malcapitato con un pungiglione, uno spillone che si metteva sul basco, costringendolo a fuggire. Al bar chiedeva un caffè doppio, ove per doppio non intendeva quel che intendono tutti ma voleva dire un caffè concentrato, denso, non l’acquaciulla, come lei chiamava i caffè annacquati tipo ciofeca. Era single a letto, ma a tavola mangiava per una famiglia. Quando voleva fare il bis, forzava il pensiero dei nipoti: «Tu mo’ volevi altra pasta ... » e invece era lei che la voleva. Amava in particolare «le sagne», variante linguistica delle
lasagne, il vino nero, che beveva facendo sempre un brindisi dadaista alla salute di un immaginario cumbà Peppino; e ’u gelat, soprattutto lo spumone, ma non disdegnava la cremolata. Si sedeva per prima a tavola con la scusa infondata che i bambini avevano fame.
Con i bambini era animatrice e domatrice al tempo stesso, con barriti che si sentivano in tutto il vicinato: «A zumbà sop’ o lieeet, ascinne» urlava se scopriva uno di noi saltare sul letto. Ma all’attività repressiva univa anche quella ricreativa. Era addetta alla gendarmeria famigliare ma anche alla fiction domestica, raccontava storie di film, di paese e di fantasia, intercalate da frasi storpiate di cantastorie: «Questi terribil fatti successeri a Campobassi, che la zita si ascinnò e la madre si morò».
Oppure nelle pause di conversazione diceva frasi incomprensibili che capiva solo mia madre. «La conversazione è be’, Peppì vogliam andà?». 0: «E così finì il nostro romanzo d’amore ... ». Se voleva alludere a un presente diceva a mia madre e all’altra sorella Gilda: «la stima», che era la parola d’ordine del gergo famigliare per sparlare dei presenti senza farlo capire. Aveva un razzismo rudimentale verso le brutte e i rossicci, che considerava infami. A loro dedicava uno stornello: «’U russ quand ved a ross fa la toss, la ross quand ved ’u russ imbizz ’u muss ... ».
Da bambina zia Ninetta aveva un cane bastardo, Pagnotta. t stato il suo principale affetto, fuori dai famigliari. Mollò il fidanzato e ancora rideva a ricordare lui come piangeva... Mia madre faceva cattivo sangue quando la sorella esagerava e allora la richiamava all’ordine chiamandola Ninetta quando era tra parenti, Anna quando era tra estranei... Veniva a casa alla controra, quando mio padre dormiva, e subito si metteva a gridare. Dopo un’ora mio padre usciva stravolto dalla camera da letto: «Nan m’avit fatt dermì». Ogni pomeriggio era così. Ma per zia Ninetta conversare voleva dire battagliare. Zia Ninetta parlava un misto barese, una spremuta dialettale di grumese e di biscegliese, con varianti personali. Quando non ricordava i nomi delle persone li riduceva a tipi: ’u Cudd, la Chedd, o in negativo ’u Ciuss, ’u Nzvus, la Sciammerue.
Era irresistibile per i bambini più piccoli quando li solleticava, mentre gli adulti le dicevano inutilmente che non doveva farli schiattare dal ridere. Tra le sue specialità il solletico sotto il mento con accompagnamento cantato: «Varvarello varvarello e se ridi vai all’inferno, se non ridi al paradiso». E noi a resistere per guadagnarci il paradiso. Variante futurista per le ascelle e per la pancia: «Mo’ se ne veen a zumb a zumb», con progressione di tono e di mani che frugano nelle parti vulnerabili fino a creare un finale marasma euforico in noi bambini che ci scompisciavamo. Oppure, per costringerci all’immobilità sul letto per la siesta pomeridiana, ci lavorava come un pane, ci impastava e ci serrava le braccia; ci teneva fermi a lievitare, per poi invocare l’arrivo di Moruccio, il mitico fornaio.
Cominciò a sfasare a ottantotto anni; il primo segnale fu televisivo: diceva che Emilio Fede le faceva l’occhiolino e la corteggiava dal video. Poi perse sempre più lucidità, conoscenza ma non umorismo. Ha continuato ad animare le serate del suo villaggio domestico, intrattenendo le sue badanti. Ora dialoga coi morti, il passato e gli assenti, con la stessa ironia scoppiettante che aveva quando la mente non si era ancora sfaldata. Ride delle sue allucinazioni, dei suoi scambi di persona, dei suoi salti nel tempo, cercando complici e spettatori che sembra prendere in giro. Guardo le sue labbra violacee (a causa del trucco e dell’aceto) e mi riaffiora dal grembo infantile della memoria di quando restavo pietrificato a osservare il movimento delle sue labbra nel letto la domenica pomeriggio. Raccontava anche allora favole sbalorditive, mescolando realtà e immaginazione. E io mi fissavo sulla sua bocca, come davanti a un portone, per veder uscire appena sfornate le parole, quasi che avessero un corpo. Pendevo dalle sue labbra che si erano fatte secche e poi sussurranti. E più magici apparivano i suoi racconti mentre calava a lei la voce, a me le palpebre. Si confondevano con i miei sogni nascenti, intrecciando le sue parole ai primi segnali di sonno che mi spegnevano gli occhi. Intravedevo a intermittenza le sue labbra violacee e sottili che narravano eventi prodigiosi o all’inizio insignificanti; l’universo intero era mobilitato dalle sue labbra, solo per tenermi buono a letto la domenica pomeriggio.
Quella voce sussurrante ronza nella memoria come il racconto del Sud.