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 2009  aprile 03 Venerdì calendario

1799 A NAPOLI


«Lo spettacolo è terribile. Cadaveri da per tutto, nelle strade e nelle case, tutti o parte bruciati dal fuoco delle case che sono state molto danneggiate; dei quartieri non più esistono, le fabbriche cadono, il teatro bellissimo è incenerito... la desolazione, il terrore vi domandano. Seguitano colà le uccisioni... gli orrori circa le violenze alle dorme sono inesprimibili. Rivuole che non ve ne sian salva alcuna, nemmeno le monache. »
La ferita originaria del Sud, la rottura con la modernità, si aprì nel 1799 quando l’esercito francese e i giacobini nostrani imposero con il sangue la Repubblica partenopea alle sue genti. La cronaca è tratta dal diario di un testimone dell’eccidio di Trani, che seguitava a quello di Andria, il magistrato Gian Carlo Berarducci. Fu pubblicato solo cento anni dopo.
«I morti seppelliti finora, parte alla Madonna del Pozzo presso Bisceglie, parte verso Barletta, diconsi circa 2000. Altri ve ne sono», mentre centinaia di scampati si nascosero nei sotterranei di Santa Maria la Neve, «si diede l’orina da bere ai bambini, in altri luoghi si uccisero quelli che piangevano». Trani e Andria avevano rifiutato di issare la bandiera giacobina e avevano tenuto alta quella del regno borbonico, a cui avevano aggiunto la bandiera nera in segno di resistenza a oltranza; ma diventò il sigillo del loro lutto. «Trani arde e il fume giunge fin qui» scrive Berarducci. Le città vicine, spaventate dai massacri di Andria, avevano preferito la resa: Bisceglie, Molfetta, Giovinazzo si erano arrese ai francesi perché «la religione consigliava a non cimentarsi con la certezza di essere massacrati». 1 francesi poi si accamparono fuori dalle mura di Bisceglie, in quello spiazzo di vigne che poi divenne il Palazzuolo e lì esposero in una macabra fiera il bottino di Trani «tele, apparati, letti, robe di chiese, argenti, pianete, mitre, orologi, carrozze».
Altra roba del sacco di Trani fu venduta a Barletta. Il mercato si svolgeva mentre continuavano le fucilazioni di marinai tranesi che capeggiavano l’insorgenza filoborbonica. Altre stragi francesi vi furono nel Sud: vicino Trani a Carbonara e Ceglie, e un po’ in tutto il Meridione. Cetara fu distrutta, scempi nell’entroterra campano. In Calabria grazie alle bande del cardinale Ruffo andò un po’ meglio per gli insorgenti filoborbonici. Così in Molise o in Terra di Lavoro, grazie a Fra’ Diavolo, meridionalista inconsapevole.
Si ricordano sempre al Sud i massacri sanfedisti e in Puglia il sacco di Altamura, che costò la vita a qualche decina di persone; ma si dimentica che prima c’erano stati eccidi giacobini e francesi con migliaia di vittime nel nome dell’Albero della libertà. I giacobini democratizzavano «con la forza dei patriotti e il popolo scontento» annotò sul suo diario Berarducci «mentre i filo borbonici erano reali con la forza del popolo». Quando il cardinale Ruffo riconquistò il Sud, anche egli con l’aiuto dello straniero, la flotta russo turca che vegliava al largo dell’Adriatico, vi furono feste popolari e religiose: «In Trani, Bisceglie, Corato, Ruvo, in tutti i luoghi vicini si sta nell’allegria massima». Il proclama reale dei ritornati sovrani borbonici non per magnanimità ma per riconquistare consensi e stabilità, elargiva «perdono generale alle città ed individui, salvo alcune eccezioni».
La rivoluzione napoletana nacque da un modello astratto ed estraneo alla nazione napoletana, al Sud: un tentativo di colonizzare il Meridione impiantando la Rivoluzione francese. L’esito fu la sanguinosa frattura tra la repubblica dei pochi, la setta illuminata degli aristocratici e degli intellettuali giacobini, e il popolo. Una frattura che in Francia sfociò nel Terrore giacobino e a Napoli nella restaurazione borbonica. Ma quella rivoluzione, sempre invocata come l’occasione perduta per la modernità del Sud, segnò invece la definitiva rottura tra riforme e tradizione, avvelenò la monarchia, creò un abisso tra élite e popolo, e in quel vuoto precipitò la borghesia meridionale. Lasciando il Regno di Napoli in condizioni assai peggiori di come l’aveva trovato. Con tutti i suoi difetti, il divario che c’era tra il regno borbonico e il resto d’Europa era nel Settecento minore di quello che si verificò a Unità d’Italia avvenuta. L!ultima fioritura fu al tempo di Ferdinando 11, negli anni Trenta dell’Ottocento.
Il difficile rapporto tra Sud e Risorgimento trae la propria origine in quel sanguinoso ricordo traumatico che fu appunto la rivoluzione partenopea e le decine di migliaia di morti, uccisi dai francesi e dai loro collaborazionisti giacobini meridionali. «La ruina» come la chiamò Vincenzo Cuoco, cominciò con la rivoluzione e proseguì con la relativa restaurazione. Fece esplodere i peggiori istinti della plebe e consegnò la dinastia nelle mani dei suoi cinici alleati, gli inglesi.
Si riversa sui Borbone e sul cardinale Ruffo la responsabilità della brutale reazione, in realtà si dimentica che Ruffo frenava le ritorsioni e infatti fu poi emarginato; le repressioni furono volute soprattutto dall’ammiraglio Nelson (una curiosità: il primo McDonald’s sbarcato al Sud duecento anni prima dei fast food fu un generale britannico). La reazione borbonica risentiva del tragico esempio francese: il regicidio, il massacro della Vandea e la ghigliottina avevano impressionato i borbonici e gli stessi sovrani napoletani e non inducevano all’indulgenza verso i loro imitatori nostrani.
Ebbe ragione Cuoco a osservare: «Il male che producono le idee troppo astratte di libertà è quello di toglierla mentre la vogliono stabilire». E difatti con la Repubblica partenopea fu instaurata a Napoli la censura, e furono eliminati i Sedili del popolo che rappresentavano, pur rozzamente, le istanze plebee (i famosi «Tre d’a chiazza» Mimì, Totò e Michele o’Pazzo erano populisti come Lauro, Valenzi o Bassolino). La Repubblica partenopea nacque nel nome di un’umanità ideale contro l’umanità reale dei meridionali.
Memorabile è l’ordine che Eleonora Fonseca Pimentel e i giacobini dettero all’arcivescovo di Napoli: fingere che il protettore di san Gennaro si fosse sciolto, per dare l’illusione alla plebe che il protettore di Napoli non fosse ostile alla Repubblica. Fu un esempio di manipolazione del consenso, attraverso l’uso cinico e superstizioso della fede. Ingannare il popolo ignorante e infantile nel nome della libertà, e del progresso è un tratto tipico dell’ideologia giacobina.
Per due secoli i peggiori crimini contro l’umanità si sono compiuti a fin di bene.