Marcello Veneziani, Sud, 3 aprile 2009
VICO- Palazzo Rocca a Vatolla è il castello «di bellissimo sito e di perfettissima aria» dove Giambattista Vico campò per una decina d’anni come precettore di una famiglia nobile, dove si innamorò della figlia del signore, che non lo filò di pezza e lui ne cantò perfino le nozze
VICO- Palazzo Rocca a Vatolla è il castello «di bellissimo sito e di perfettissima aria» dove Giambattista Vico campò per una decina d’anni come precettore di una famiglia nobile, dove si innamorò della figlia del signore, che non lo filò di pezza e lui ne cantò perfino le nozze. e dove pensò la Scienza nuova, opera capitale del pensiero mediterraneo. Ecco il Sud blasonato e saggio, o sventurato e peggiore, secondo i punti di vista, perché dominato da intellettuali della Magna Grecia. In quel sole, tra quegli alberi, con quella luce, non era possibile diventare meccanici ma solo filosofi. Contemplazione ed estasi suggerisce il paesaggio che si fa destino. E difficile immaginare la filosofia vichiana fuori dal Sud. La sua prima critica al pensiero cartesiano nasce sulla sponda di un biliardo in un salotto napoletano, dove naufraga la teoria cartesiana ripresa da un matematico e applicata a una partita di biliardo. Vico esordì da avvocato per volere del padre, la vecchia fissa meridionale di avere il figlio avvocato, e la sua prima causa fu in difesa del padre; poi, tenendo famiglia, difese pure il genero. Abbandonò il foro per diventare precettore della famiglia Rocca a Vatolla e Portici. Poi il tentativo assai meridionale di trovare un posto fisso, un impiego al municipio di Napoli, ma fallito; quindi la cattedra di retorica e il matrimonio, la sensazione di vivere da straniero e sconosciuto in patria, il lagnarsi continuo dei suoi malanni anche in poesia, la sua fama di seccatore dal parlare troppo affettato, da forbito intellettuale meridionale; malato di scorbuto o come lui diceva «di natura malinconica e acre, qual dee essere degli uomini ingegnosi e profondi». L’elogio in poesia dell’emigrato intellettuale, la descrizione dei nobili del Sud come ingegni addormentati nei piaceri della vita allegra, il Sud pensoso ma inoperoso, il culto della famiglia «seminario delle repubbliche», il legame geostorico tra satira e vendemmia quando si consentiva ai contadini del Sud, anzi ai «vendemmiatori della nostra Campagna felice», di dire villanie ai nobili nella «stanza di Bacco». Le opere pubblicate con difficoltà, come la Scienza Nuova, vendendo un anello di casa e riducendo le pagine per contenere i costi di stampa. Infine il raddoppio del compenso diventando stenografo regio e il familismo amorevole di lasciare la sua cattedra al figlio Gennaro (come fanno ancora molti docenti e rettori del Sud, ma non sono Vico). La vita e il pensiero di Vico riflettono il genius loci e lo trasferiscono in cielo. La sua teoria meridionale dell’ingegno fantasioso, l’elogio della quiete - stato metafisico - mentre il moto è fisica bruta, l’idea di costituire «una metafisica adatta alla debolezza umana», sartoriale, a misura d’uomo... La filosofia del Sud al crinale della modernità si condensa nell’opera di Vico: la sua tradizione e la modernità che le sarebbe stata consona, l’amor fati baciato dalla Divina Provvidenza in un crocevia tra corsi cristiani e ricorsi pagani, la fantasia creatrice e l’anima poetica del Sud, l’ideale convertito alla realtà, anzi calato come un vento che anima e scuote le piante, il divino come un raggio di solleone sulla terra, il fruttuoso intreccio di storia e natura, gli ingegni sprecati e il familismo, lo spirito dell’emigrante e la fervida malinconia del meridionale d’intelletto. Tutto è condensato nel pensiero mediterraneo di Vico, non c’è luce, pianta, scorcio del Sud che non sia rifratto nella metafisica vichiana. Napoli celeste. Il paradosso di Vico. E’ l’unico filosofo che sia stato rivendicato come padre nobile dalle quattro culture che hanno dominato il Novecento: quella nazionalfascista, quella cattolica, quella laico liberale e quella italomarxista; idealisti, spiritualisti e materialisti. Non è accaduto a nessun altro autore. Salvo dimenticarlo tutti, in questa rimozione collettiva del nostro passato che porta a cancellare la tradizione crociana, gentiliana, gramsciana e cattolica. Intorno a Vico e al suo storicismo si raccoglie il pensiero meridionale, l’idealismo che si identificò lungo l’asse napoletano siciliano di Croce e Gentile, più l’Irpinia di De Sanctis e l’Abruzzo gravitante su Napoli dei fratelli Spaventa, e tutto lo spiritualismo meridionale. Crocevia di queste correnti di pensiero, Vico ha pagato più di tutti lo scotto dell’amnesia culturale e identitaria del Sud e dell’Italia, scontando debiti ideologici ed esperienze storiche dei quali è innocente. La presunta fine della storia si è abbattuta sul più acuto pensatore della storia. Vico incarna al più alto livello la tradizione italiana, comunitaria, mediterranea e meridionale, opposta all’Europa nordica, protestante, individualista, britannica, teutonica e olandese. In lui vi è il tentativo più significativo di conciliare autorità e libertà, tradizione e modernità, cattolicesimo e classicità pagana, monarchia e popolo, leggi tribunizie e consolari, filosofia e storia, Platone e Tacito, Machiavelli e Agostino. La Provvidenza, a cui Vico si richiamò costantemente, non fu generosa con lui, «non volle costituirlo in agiata condizione» come scrisse nella sua autobiografia; ebbe una vita difficile dalla nascita alla morte. Nacque in una modesta famiglia di origini contadine, in un angolo di Napoli dove il padre aveva una piccola libreria. Un referto medico lo indicava da piccolo, in seguito a una caduta, destinato a morire presto o a restar «stolido». Da qui il nomignolo di Tisicuzzus per il suo corpo esile e cagionevole. Ma neanche da sposato sfuggì a una vita infelice, tra un nugolo di figli (otto, come la famiglia da cui proveniva) che gli impedivano di concentrarsi tra «gli strepiti domestici» e qui ricordo una testimonianza analoga del siciliano Gentile (questi filosofi del Sud con famiglia rumorosa e numerosa); una moglie «dotata di puri e ingenui costumi», analfabeta e anche poco pratica delle faccende domestiche, che lo costringeva a prendersi cura delle cose di casa e perfino dei «vestimenti» della prole, dalle fasce in poi; due figlie amatissime, che gli davano «leggiadro trastullo», ma pure un figlio «traviato», Ignazio, per il quale fu costretto a invocare i birri per imprigionarlo, salvo urlargli, in un sussulto di amore paterno, di mettersi in salvo mentre lo stavano acciuffando su sua denuncia. Da intellettuale della Magna Grecia, Vico riconosceva di avere «poco spirito» nelle cose che riguardano «le utilità». E non ebbe migliore fortuna come studioso. Bocciato all’unanimità al concorso di Diritto civile, fu umiliato per l’insuccesso della sua opera sul Diritto universale: «Sfuggo tutti i luoghi celebri per non abbattermi in coloro ai quali l’ho mandata... non dandomi essi né pure un riscontro di averla ricevuta, mi confermano l’oppinione di averla io mandata al diserto». Convinto che «la disgrazia lo avrebbe perseguitato fin dopo la morte», Vico ebbe tormentati funerali, replicati il giorno seguente, con la salma rimandata a casa dopo le esequie - una grottesca metafora o sceneggiata napoletana dei suoi corsi e ricorsi - a causa di un conflitto tra i professori dell’ateneo e i confratelli della congregazione di Santa Sofia. Solo nel 1789, quarantacinque anni dopo la sua morte, grazie a suo figlio Gennaro, ebbe adeguata sepoltura. Profeta delle sue sventure, Vico fu però profeta anche della sua grandezza di cui fu consapevole. «Vico» scrisse nell’autobiografia «con gloria della cattolica religione, produce il vantaggio alla nostra Italia di non invidiare all’Olanda, l’Inghilterra e la Germania protestante.» L’Europa latina e cattolica, mediterranea e meridionale in antagonismo al Nord calvinista e protestante. Prima di Holderlin e Heidegger, Vico riconobbe la poesia come fondazione del linguaggio. Vichiana fu la concezione della storia come una spirale, che armonizza la visione lineare e progressiva della storia desunta dal cristianesimo e dall’ebraismo con la visione circolare e sferica dell’antichità pagana e orientale, desunta dai cicli del cosmo e della natura. I ricorsi della storia non sono ripetizioni, l’eterno ritorno dell’uguale, ma analogie cicliche, su un piano più alto, dunque eterno ritorno del diverso. Vichiana fu l’intuizione della legge che governa la storia e che fu poi definita «eterogenesi dei fini», secondo cui le conseguenze storiche rovesciano le intenzioni e gli esiti tradiscono gli scopi originari. Nella storia «agisce una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi particolarii ch’essi uomini si avevan posti»; Vico porta in filosofia il sentire comune meridionale, che ai piani bassi si sbriga come fatalismo. O ancora l’idea, rilevata da Isaiah Berlin, che l’uomo possa comprendere se stesso perché comprende il passato. E solo in virtù di quell’esperienza o tradizione, ricostruita tramite l’immaginazione, egli è in grado di comprendere i suoi simili, comunica con loro e diventa pienamente umano. Per Vico le cose nascono, vivono e muoiono in un processo di sistole e diastole; la storia, scriveva nel De antiquissima italorum sapientia, segue una specie di movimento cardiaco in cui la contrazione e la distensione corrispondono a continuità e innovazione. La storia per il pensatore napoletano ha un’anima e funziona come un cuore. C’è un fondo sentimentale napoletano alla sua teoria. Tutta la scienza nuova «d’intorno alla comune natura delle Nazioni» fu una difesa delle tradizioni volgari che «devono aver avuto pubblici motivi di vero, onde nacquero e si conservarono da intieri popoli per lunghi spazi di tempo». Compito della scienza nuova dovrà essere quello di «ritrovarne i motivi del vero, il quale col volger degli anni e col cangiare delle lingue e costumi, ci pervenne ricoverto di falso». Vico identifica il cuore delle tradizioni nella loro universalità; popoli «tra essoloro non conosciuti» coltivano lo stesso patrimonio di idee, riti e simboli da cui nacque il diritto naturale delle genti. A livello più basso delle tradizioni c’è il senso comune che è «un giudizio senza alcuna riflessione, comunemente sentito»; la storia sacra è invece «la storia ideal eterna sulla quale corrono in tempo tutte le nazioni». La Scienza Nuova è una «teologia civile ragionata della provvidenza divina», ma anche una filosofia dell’autorità che è «il senso comune del genere umano sopra il quale riposano le coscienze di tutte le nazioni». Le repubbliche per Vico si reggono sul «tradizionismo», la religione e le consuetudini civili; si scorge un’eco della tradizione italica, pitagorica, fiorita al Sud. Il suo simbolo era musicale, la lira, discesa da Mercurio, Apollo e Orfeo, «l’unione delle corde de’ padri, onde si compose la forza pubblica che si dice imperio civile». Quella sapienza originariamente portata dagli Egizi, per poi espandersi nel Meridione «e riuscitovi dottissimo li sarebbe piaciuto fermarsi nella Magna Grecia, in Crotone, ed ivi fondar la sua scuola». Per Vico sia i governi che i poeti devono essere organici ai loro popoli. La poesia è grande se riflette, suscita e rigenera la tradizione della comunità, ovvero se sa «ritrovare favole sublimi confacenti all’intendimento popolaresco» e sa insegnare al volgo a «virtuosamente operare». Al Sud manca oggi una «favola confacente». Da vero meridionale, Vico ebbe mente intuitiva e letteraria più che analitica. Realismo metafisico è il pensiero che anima la sua Scienza Nuova, che ebbe fama solo alla sua seconda edizione, quando per Vico stava calando la notte e lui «aggitato e afflitto, come ad ultimo sicuro porto, lacero e stanco, finalmente ritragge». Tipico ma non ingiustificato vittimismo meridionale. Vita oscura di un luminoso pensatore.