Marcello Veneziani, Sud, 3 aprile 2009
CAMORRA
Dio, san Gennaro e il guappo. Era la santissima trinità a cui dovevano obbedire gli affiliati alla camorra, secondo il codice d’onore ritrovato dalla polizia borbonica che recitava: «I consociati oltre Dio, i santi e i loro capi non conoscono altra autorità». Uateismo pratico e praticone ha colpito la nuova camorra. La chiamavano Bella società riformata, ma non era né un circolo di galantuomini d’alta società né un club di illuministi riformatori. Bella nella lingua del Sud, ricca di declinazioni estetiche, sta per buona, come bedda in siciliano. E riformata non c’entra con la rivoluzione riformista e la cultura giacobina e illuminista. Ma allude al riformarsi della camorra in nuovi ambiti. Sin dal 1400 c’era a Napoli una Società delle mignatte che si proponeva di sfruttare la prostituzione e di organizzarla. E sin dall’epoca del vicereame spagnolo esisteva l’organizzazione del gioco della morra; due giocatori mostrano con le dita della mano destra un numero e contemporaneamente ne gridano un altro, da due a dieci. Vince il giocatore che ha azzeccato il numero che assomma i due formati dalle dita dei giocatori. La camorra nasce dallo sfruttamento su larga scala di questo gioco e dalla pretesa di ottenere una parte della vincita, il pizzo o, come si diceva già, la tangente, pari a circa un quarto da devolvere al guappo e ai famigliari dei camorristi finiti in galera o malati. C’è un risvolto di solidarietà umanitaria dietro la sopraffazione.
L’origine mitologica della camorra risale a uno spagnolo del Seicento, Ramon Camur, importatore da Siviglia della corduna, antenata della camorra. L’origine filologica è fatta risalire invece alla gamurra, giacchetta corta di panno ruvido in uso tra i briganti del Sud. Ma c’è un alone leggendario - come l’origine araba della mafia - di cui parlò Arturo Labriola in un saggio del 1911, La leggenda della camorra. Fratello di Antonio, sindacalista rivoluzionario, avvocato a Napoli e ministro del Lavoro con Giolitti, Labriola sosteneva l’origine autoctona della camorra, dai lazzari napoletani. Pietro Colletta ne contava trentamila al tempo del viceré: i lazzari vivevano di espedienti, lenocinio, furtarelli o grazie «al vostro buon cuore». Pur socialista, Labriola disprezzava la plebe napoletana ritenendo che si dovesse «abolire una razza». Ma da massone e intellettuale laico repubblicano se la prendeva anche con la monarchia di lazzaroni e con la chiesa. La vecchia camorra, che si definiva onorata società come la mafia, era interdetta al ladro professionista o al lenone, e il suo primo grado era il giovinotto onorato. C’era dunque «un ingenuo carattere di plebea moralità» e perfino una forma di autoeducazione popolare, scriveva nostalgico Labriola. I De Crescenzo e gli Albertini o i Cappuccio erano capi camorristi generosi che riparavano anche torti o iniquità.
Poi la repressione dello stato unitario, voluta da Silvio Spaventa, il disprezzo borghese per l’onorata società, la fece regredire a uno stato selvatico e brutale. Il colpo fatale alla vecchia camorra furono le retate disposte dal generale Alfonso Lamarmora, dal questore Carlo Aveta e da Diomede Marvasi, il confino per i camorristi nelle isole e l’abolizione della guardia cittadina infiltrata di camorristi. Criminalizzata, a suo dire, divenne una società di criminali, disonorata, perse, strada facendo, il suo codice d’onore.
A quel punto sorse una camorra diversa, tutt’altro che selvatica, di estrazione borghese, che si costituiva in comitati elettorali ed entrava in politica sostenendo personaggi allora famosi come Billi, Casale, Ungaro. I camorristi diventavano capi clientela, gli affiliati galoppini, legandosi a candidati giolittiani e a settori della polizia. Nel contempo si allargavano le sue attività fra strozzinaggio, ricettazione, appalti edili e pubblici, ruffianeria, oltre che lenocinio e bische. I figli dei camorristi diventavano imprenditori o avvocati. Dunque, il contrario di quell’inselvatichimento di cui parlava Labriola. Nasce la borghesia lazzarona, malattia letale del Sud.
Fino alla più recente Nuova camorra organizzata di don Raffaele Cutolo; una barbarie di ritorno, direbbe il napoletano Vico, frutto perverso di una modernità selvatica che degrada uomini e città, privandoli di ogni residuo legame di valori e timor di Dio, dello stato, della legge e del giudizio altrui. Un nome antico per una barbarie nuova. Per la nuova camorra non ci sono santi che tengano. Nemmeno san Gennaro.
La corruzione non è una malattia del Sud o napoletana, ma umana e cosmica. Altrove è recondita, scientifica, fredda, underground. Invece a Napoli e al Sud la corruzione è teatrale, rituale, corale, liturgica, scenica, arabo sudamericana. per certi versi benemerita. E’ lenta e cronica, danza negli anni e nei luoghi come un’odalisca. Don qui, donna là, commendatore qui, eccellenza là. Voi pensate ai milioni depositati all’estero su misteriosi conti protetti. Ma al Sud la corruzione è pure solare: ville sultanesche, pranzi luculliani, sprechi vistosi, elemosine spettacolari con strascico di pezzenti, esibizionismo sessuale, ricchezza ostentata nello struscio e sui balconi, soldi depositati nel cuore della piazza. Qui si ruba a mezzogiorno, in piena luce. Come se fosse naturale. La sua cresta è effervescenza naturale, come le bollicine d’acqua minerale; non solo per i potenti ma anche per i sudditi, per i beneficiati e per i guardoni. La generosità nasce non solo per dimostrazione di potenza ma anche per polizza contro il malocchio. Come nelle antiche monarchie, la magnificenza è un segno di magnanimo splendore. Benefici a cascata: io godo con i cinque sensi, e anche più, voi con due, tre sensi, come la vista, l’udito ed eccezionalmente il gusto, l’olfatto e il tatto. Ma partecipate, sentite l’odore della ricchezza. Volti da fazenderi brasiliani, matrimoni da sceicchi.
La corruzione vistosa gode del consenso della popolazione, a volte della gratitudine, con il sottinteso realista e in fondo onesto che nella stessa situazione tutti avrebbero fatto altrettanto. La corruzione così non è trasgressione ma evento naturale, fisiologico, quasi meteorologico. La gestione autocratica, personalistica, del potere ha i suoi lati odiosi ma anche i suoi tratti umanitari: non fa più differenza tra ciò che è pubblico e ciò che è privato. Tutto è una cosa sola, cioè Cosa Nostra.
Un politologo italoamericano, Joseph Lapalombara, forse in un sussulto nostalgico delle sue origini terrone, scrisse un elogio del sistema politico meridionale fondato sulla corruzione e il trasformismo, non so se voi nordici e moderni possiate capire... E ìn questo c’è tanto un’arcaica rozzezza quanto una sofisticata saggezza, un’intelligenza acuta ma storta, che pensa per arabeschi più che per linee rette. Non geometrica ma barocca. In fondo anche la corruzione è una connessione in rete.