Marcello Veneziani, Sud, 3 aprile 2009
CORTEGGIAMENTO
Corteggiare una ragazza si traduceva al Sud con l’espressione «andare dietro». Quello mi viene dietro, diceva orgogliosa e infastidita la minenna... Andare dietro non era una metafora, ma un’attività reale, un pedinamento quotidiano, insistente. Interi pomeriggi e sere passati ad andare dietro alle femmine, emettendo fischi di richiamo. C’era chi si accontentava di questa attività senza arrivare a una conclusione, esaurendo l’orgasmo nell’inseguimento, scambiando l’andar dietro con il possedere. C’erano Casanova immaginari che vantavano decine di vittime mai sfiorate, solo inseguite. Le facevano perdere solo la verginità stradale. I più mondani si vantavano di pregresse intimità, dicendo: «Quella la tengo ballata».
Andare dietro alle ragazze, dette «piccioni», si divideva in due attività simili alla caccia: da passeggio e da appostamento. La prima coincideva con lo struscio o il salescinne, che al mio paese era diviso in gironi distinti intorno alla piazza: studenti liceali e universitari, studenti tecnico professionali, lavoratori e sartine. Se saltavi da un girone all’altro eri guardato male, come un invasore: una volta passammo dal primo al terzo girone dello struscio, e una sartina ci bollò: «Tutti locchi i studendi». L’itagliese, lingua mista di italiano e pugliese, era il linguaggio per comunicare tra sessi e ceti diversi.
L’appostamento, invece, era personalizzato; la seguivi da casa in chiesa o dalla maestra di tombolo, a casa della nonna o dell’amica. E magari aspettavi per ore che scendesse. A volte l’inseguimento, alimentato solo da sguardi, rallentamenti, vaghe allusioni, veniva coronato. Oggi l’ho fermata, dicevi agli amici con orgoglio sessuale da polizia stradale. Magari la prima volta per chiederle con voce innaturale «scusi, che ore sono?» davanti all’orologio della piazza o esibendo un vistoso orologio al polso; i più arditi la chiamavano per nome, la abbordavano con una spiritosaggine. Se rideva voleva dire che ci stava; ma se non rideva voleva dire che faceva finta o era una ragazza seria, non dà confidenza o si tira la calzetta. Dunque, inzistisci, almeno fino a che lei non ti fa la parte, o non ti vengono a minacciare zii e fratelli. Gli approcci successivi alla fermata erano il tratto di strada insieme, il bacio nel portone o nel vicolo, la passeggiata al buio, la mano lunga al cinema. Ricordo un approccio sotto casa di una ragazza interrotto dal barrito della madre che dal balcone emise un urlo da sirena antifurto. In alcuni casi scattava per le femmine locali la protezione etnica: se veniva un gruppo di ragazzi dai paesi vicini a rimorchiare, s’innescava la solidarietà tribale tra i maschi indigeni. L’eroe locale si chiamava Tonino La Notte, difensore dell’integrità razziale delle minenne indigene.
«Le mani a posto», «Levi le mani da ’ngodd» (d’addosso) erano le formule di dissuasione o di semplice negoziazione recitate dalle ragazze davanti agli approcci del ragazzo, fino allo schiaffo e all’accusa di «porco» se lui aveva messo le mani nei luoghi sacri, aveva tentato di baciare con la lingua o addirittura «se lo era uscito». I più intraprendenti erano bollati dalle femmine come ciambe lounghe (mani lunghe), rattusi, ciucce ameruse (ciucci amorosi). I guardoni erano classificati come raschiatori.
Le fasi dell’amore erano tre: inseguimento, acchiappo e fidanzamento, andandosi a costituire al parentado. Una resa bilaterale, lei a lui, lui a loro (i famigliari di lei). Chi saltava la terza fase doveva il più delle volte predisporsi al girone di ritorno, l’inseguimento da parte del parentado.
L’innamoramento aveva tre sbocchi: ascinnuta, scombinata, inzirata; ovvero nel primo caso si contempla la zita compromessa (verginità perduta o gravidanza prematrimoniale); nel secondo si contempla il fidanzamento saltato per disaccordo su dote, procedure, festa di nozze, mestiere dello sposo, ruolo delle famiglie, corna fatte da lei (quelle fatte da lui il più delle volte erano considerate un segno di buona salute o al più passibili di una crepanza di mazzate da parte dello zio della sposa, perché c’era sempre uno zio giustiziere ed energumeno in famiglia); nel terzo, invece, si contempla la capitolazione nuziale dell’ostaggio.
In tutti i casi l’amore diventava un caso di contabilità, sia per misurare la dote o apprezzare il corredo con visita guidata (mia zia aveva un corredo di «panna cento», un record; ma non si sposò), sia per la restituzione dei regali in caso di matrimonio scombinato. A volte ci si rendevano perfino le scatole vuote dei cioccolatini e si divideva in due la foto insieme davanti al monumento dei caduti o al mare. (Ci fu un caso ante litteram di mobbing amoroso: un fidanzato fu citato dai genitori della sposa per risarcimento lacrime e notti insonni.)
I fidanzati erano oggetto di pubblica derisione: il loro reciproco innamoramento suscitava la iosa dei ragazzini «<jò jò a frecò» era il coro ditirambico per svelare la fornicazione) e l’ironia dei vecchi che avevano esperienza del mondo (ha perso la capa, «cur nan capisce chiù neinde»). Il fidanzamento - il foglio rosa dell’amore prima di prendere la patente nuziale - serviva a neutralizzare il ragazzo, addomesticarlo e castrarlo, e sfogare l’arrapamento nell’ingozzamento, sublimando l’eros nel pasto. Ore trascorse in visita alla nonna o sotto la vigilanza di odiosi fratelli piccoli nel ruolo di spie e bracciali elettronici; cani volpini che si lanciavano ad altezza di brachetta se ti avvicinavi alla padroncina (quanti calci nei denti alla bestia, quando i padroni di casa non vedevano); vani tentativi di amplessi negli angoli bui di casa, mani che si allungavano davanti al braciere o alla tv, abbozzi di fughe in cantina o sotto il portone. Le generazioni più attrezzate andavano a fermarsi con la macchina. Da noi il più affollato luogo della dolce vita era dietro il cimitero, dove c’era una densità di coppie parcheggiate pari a una per metro quadro, quasi come nei loculi adiacenti. La privacy era garantita spontaneamente dal vetro appannato; e violata da pessimi ammortizzatori o qualche chiassosa resistenza per le new entry. La lucina accesa nell’abitacolo indicava la fase della ricomposizione, il ritorno alla civiltà; la partenza rapida con sgommata indicava che l’amplesso era finito male o che era tardi e quando lei arrivava a casa erano mazzate («A chess’ore se ven, addò si stat’ fing a’ mò?», a quest’ora si viene, dove sei stata finora?).
Il passaggio dall’innamoramento al fidanzamento e poi al matrimonio comportava una trasformazione antropologica: l’innamorato è magro, occhi scavati, teso in ogni parte del corpo, insonne ma sognante, fuori dal mondo; il fidanzato è stucchevole, occhi ebeti e maniere dolci, conciliato con il mondo ma isolato dall’umanità e completamente disossato; lo sposato ha la pappagorgia e la panza, dormiente ma non sognante, schiacciato dal mondo, tiranno e succube della Casa, mentalmente castrato. Il passaggio dall’innamoramento al matrimonio è il passaggio da una leggerezza al peso, che si poteva anche misurare in chili.
Il vero San Valentino era il giorno in cui i parenti dello sposo erano trascinati a conoscere la sposa e i suoi famigliari. Il fidanzato era paonazzo, con la camicia bianca, in stato di coma amoroso tribale, portato come un prigioniero ed esibito come un bottino di guerra dalla zita, che era su di giri, tutta ittipízzata, profumata in modo esagerato da causare la nausea,il fratellino, con l’aria della santarella profanata. I genitori di lui erano diffidenti, soprattutto la mamma per averle depredato quera gioia di figlio, «non perché è figlio mio, ma è davvero un giovane a posto»; i genitori di lei erano compiaciuti per aver piazzato la femmina ma ugualmente diffidenti sul ragazzo e sulla famiglia. Si scrutavano in cagnesco e si valutavano a vicenda, e solo l’opera negoziale di mediatori, zii diplomatici, cugine presentabili, compari comuni e sensali di professione, riusciva a sciogliere la tensione e a permettere di entrare nei discorsi scabrosi mentre passavano il rosolio e i complímendi (i dolci). Commara, favorite.
Il rischio di una colluttazione tra i parenti più rustici era alto, magari dopo il rinserrarsi nel «chi siamo noi e chi siete voi», «che portate voi, che portiamo noi». E il reciproco vantarsi dei rispettivi figli rischiava di innescare battutine e gaffe dagli esiti pericolosi. A metà serata, la mamma di lui sparava l’anello per la sposa e i genitori di lei «uscivano dal tiretto» l’orologio per lo sposo, in memoria di quel giorno galeotto, quando lui le chiese l’ora e cominciò la tresca.
Ora, con l’orologio messogli dalla zita al polso come una manetta, davanti a testimoni e carcerieri, non può più sfuggire. Eppure lui quel giorno che «la fermò» le aveva chiesto l’ora, mica l’eternità.