Paolo Madron, Il sole 24 ore 1/4/2009, 1 aprile 2009
CHRYSLER AFFARE ECCELLENTE
Loro due si conoscevano bene. Un po’ perché Paolo Fresco, prima di diventare nel ’98 presidente della Fiat, aveva speso gran parte della carriera oltreoceano, alla General Electric dove, per la serie com’è piccolo il mondo, lavorava alle sue dipendenze Bob Nardelli, l’attuale capo di Chrysler. Ma soprattutto perché con Richard Wagoner, il padre padrone della General Motors brutalmente silurato lo scorso fine settimana dal presidente Obama, nel 2000 Fresco aveva trattato l’alleanza con Fiat. Compresa la fatidica "put" che obbligava la casa di Detroit a comprarsi tutto il Lingotto, e che quattro anni dopo il neo amministratore delegato Sergio Marchionne avrebbe abilmente monetizzato a vantaggio delle sue casse. Così, adesso che anche il potentissimo Wagoner ha gettato la spugna, abbiamo chiesto a Fresco di raccontarci quei mesi alla Fiat in cui si consumò il brevissimo e sfortunato (per gli americani) matrimonio.
Una volta era il presidente della General Motors che prendeva a schiaffi la Casa Bianca, non viceversa.
In effetti. Ma Obama doveva dare un segnale forte di cambiamento. E cosa c’è di più forte se non mandare a casa Wagoner, uno dei manager più potenti d’America?
A Torino dovrebbero fargli un monumento solo per il fatto di aver regalato 4 miliardi di dollari alla Fiat senza nemmeno toccare palla.
Di più. Sono 4,5 miliardi. Per la precisione 2,5 quando vendetti loro il 20% di Fiat Auto, e 2 a Marchionne per non essere costretti ad esercitare la put sul resto del capitale.
Per avere in cambio un pugno di mosche visto che la loro quota Fiat fu progressivamente svalutata.
E pensi che nell’accordo concluso da Marchionne per liberare Gm dalla put, il Lingotto si riprese anche le residue azioni Fiat, mi pare fosse un 5%, che erano rimaste agli americani.
Cornuti e mazziati. Eppure, nonostante i 4,5 miliardi gettati dalla finestra, nessuno all’epoca osò chiedere la testa di Wagoner. Pensare che quella di un suo predecessore, Robert Stempel, rotolò per molto meno.
No, non bisogna essere ingenerosi, perché fin da subito Wagoner si è trovato alle prese con una situazione difficile. I problemi di Detroit li ha ereditati, poi che non li abbia affrontati con la necessaria rapidità e determinazione è un altro discorso. Ma resta un bravo manager, e una persona onesta.
Dov’è caduto?
Su due ostacoli. Il primo gliel’hanno messo i sindacati di Detroit, dove il costo complessivo della manodopera è più del doppio di quello che paga la Toyota nelle sue fabbriche americane. L’altro, ma più che ostacolo fu insipienza, di non essersi mosso prima. In fondo è quello che gli imputa Obama, alla luce del fatto che Gm e Chrysler sono già da anni tecnicamente fallite.
Da un punto di vista simbolico un reale fallimento di Gm sarebbe però devastante per l’immaginario americano.
Avrebbe delle enormi implicazioni emotive. Ma se voltiamo indietro è fallita anche Pan Am, che era una delle industrie simbolo del sistema, il cui emblema era il grattacielo newyorkese su Park Avenue. Il tempo guarisce tutte le ferite, anche quelle che a tutta prima fanno più male.
Quando fece la famosa put con gli americani, era per evitare che si comprassero subito tutto?
Al contrario. Ero io che avrei voluto vendere tutta Fiat Auto. Andò così. Io volevo un matrimonio con una società più grande di cui la famiglia Agnelli fosse socio di minoranza, e stavo trattando la cosa con Daimler arrivando a un passo dall’altare.
Perché voleva vendere?
Perché quello dell’automobile è un business che appartiene al passato, che è molto maturo e con una capacità produttiva che supera di una volta e mezzo la domanda.
Solo che l’Avvocato non voleva passare alla storia per il liquidatore di una gloriosa storia centenaria.
Infatti mi chiese di cercare una soluzione in cui avremmo mantenuto il controllo. E io gli ho portato l’operazione con Gm. Ma ho insistito perché venisse inserita una clausola che in futuro avrebbe consentito alla Fiat di vendere tutta l’Auto. Gli americani, se pur in minoranza, erano un socio molto ingombrante. Di qui la famosa put.
Che Wagoner accettò senza colpo ferire?
Tutt’altro. Loro si rendevano conto che firmavano una clausola che andava tutta a nostro vantaggio. Ma io ne feci una condizione sine qua non.
Come mai non riuscì a convincere Agnelli che era meglio vendere tutto?
Forse perché non sono stato abbastanza bravo. Ma mi consola pensare che anche Enrico Cuccia qualche tempo prima aveva fallito nello stesso intento di farlo vendere ai tedeschi. E poi l’Avvocato in questa sua resistenza aveva alleato Paolo Cantarella, il suo amministratore delegato.
Ma suo fratello Umberto era invece d’accordo con lei.
A quell’epoca Umberto non contava nulla. Comunque è vero che quando ne parlavo con lui lo trovavo d’accordo con le mie tesi. E poi bisogna dire che quella con Gm non si configurava certo come un’operazione svantaggiosa per Fiat.
Guardando all’agonia del colosso di Detroit, si potrebbe parafrasare all’incontrario, cioè che ciò che va bene per Gm non va bene per l’America.
Se Obama ha deciso di salvarla dimostra che tuttora quello che va bene per Gm va bene per l’America. Solo che stavolta l’Amministrazione ci è andata dentro a piedi uniti.
E Fiat, che chiamando la fatidica put doveva essere inghiottita da Gm, ora si compra la Chrysler. Un buon affare secondo lei?
Chrysler è in pessime acque, e questa è una bella operazione se vista come occasione per rafforzare la presenza di Fiat nel mondo. Ma non è la soluzione strategica in tema di alleanze. Se pensiamo che Fiat abbia bisogno di trovare un partner forte, quello non è certo la più piccola delle Big Three.
E vista da Chrysler?
Un affare eccellente, anche perché è l’ultima ancora di salvataggio cui si possono aggrappare.