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 2009  aprile 01 Mercoledì calendario

L’Italia mancata del buon Barbarossa. Corriere della Sera, mercoledì 1 aprile Quando il re di Germania Federico Barbarossa si affacciò per la pri­ma volta al Brennero, nell’autun­no 1154, era un giovane di forse trent’anni, ben diverso dal vecchio arci­gno e barbuto dell’iconografia risorgi­mentale

L’Italia mancata del buon Barbarossa. Corriere della Sera, mercoledì 1 aprile Quando il re di Germania Federico Barbarossa si affacciò per la pri­ma volta al Brennero, nell’autun­no 1154, era un giovane di forse trent’anni, ben diverso dal vecchio arci­gno e barbuto dell’iconografia risorgi­mentale. Come tutti i suoi predecessori, veniva a Monza per cingere la corona fer­rea di re d’Italia; poi avrebbe affrontato il lungo viaggio fino a Roma, sfidando la calura estiva e i miasmi della malaria, per incontrare il Papa e farsi incoronare imperatore, legittimo successore di Au­gusto e di Costantino. Che un unico sovrano dovesse gover­nare i regni di Germania e d’Italia era una bizzarria costituzionale sopravvissu­ta allo sfacelo dell’impero dopo la mor­te di Carlo Magno; e che il compito non fosse facile era risaputo da sempre. I predecessori del Barbarossa esercitava­no sulla Penisola un’autorità poco più che nominale: si accontentavano di tro­vare le strade sgombre e i mercati ben forniti di vettovaglie, ogni volta che scendevano in Italia, e in cambio accet­tavano che ogni città provvedesse da so­la a difendersi, a riscuotere le imposte e ad amministrare la giustizia. Anche vo­lendo, non avrebbero avuto né la forza politica né il denaro e gli uomini e nem­meno la preparazione culturale per pre­tendere qualcosa di più. Ma il giovane re apparteneva a una ge­nerazione nuova, che non si accontenta­va più di lasciare che le cose andassero com’erano sempre andate. Era consape­vole che il mondo stava cambiando, e vo­leva cavalcare quel cambiamento. In tut­ta la Cristianità fin dai tempi della lotta per le investiture si era cominciato a in­terrogarsi sulla natura del potere e sul­l’esistenza di una res publica superiore agli interessi individuali. A Bologna era sempre più numerosa la comunità degli studenti (ma nel linguaggio di allora si diceva «l’Università») accorsi da tutta Eu­ropa per studiare con i famosi maestri del diritto romano: e nel Corpus iuris ci­vilis quegli studenti imparavano che una sola è la fonte del potere e il garante del benessere pubblico, l’imperatore. Aggiungiamo che da tempo l’econo­mia era in crescita, le zecche faticavano a battere tutta la moneta necessaria per soddisfare le esigenze dei mercanti, gli introiti dei pedaggi e delle gabelle saliva­no alle stelle, e di conseguenza il denaro affluiva in sempre maggior quantità nei forzieri del monarca, permettendo di ac­carezzare progetti sempre più ambiziosi. Il Barbarossa pensò che fosse venuta l’ora di far sentire di nuovo ai sudditi la sua autorità, imponendo la giustizia del re al posto delle giustizie private e la pa­ce del re là dove regnava l’anarchia. An­che i suoi colleghi, i re degli altri paesi cristiani, pensavano la stessa cosa e intor­no a loro cominciavano a funzionare em­brionali apparati di governo: il primo nu­cleo di quello che un giorno diventerà lo Stato moderno. Diversamente da un re di Francia o un re d’Inghilterra, il Barbarossa regnava pe­rò su due Paesi diversi e a mala pena co­municanti. Eletto dai duchi e dai vescovi tedeschi, aveva già abbastanza da fare per garantirsi la fedeltà della Germania, a rischio d’essere sbalzato dal trono se avesse commesso un passo falso. Tutta­via s’illuse che le forze gli sarebbero ba­state per imporsi anche nel secondo dei suoi regni: senza spaventarsi per il fatto che in Italia, o almeno nella sua regione economicamente più avanzata, la sfida all’autorità del monarca non era incarna­ta da principi e prelati, ma dai comuni. La Lombardia, termine con cui si desi­gnava allora tutta la pianura solcata dal Po, era una terra di città; ovunque, lun­go le strade romane e i corsi d’acqua, il viaggiatore vedeva sorgere in lontanan­za le torri e i campanili dei centri urba­ni, qualcuno ancora rinserrato nella cer­chia delle antiche mura romane, altri fer­venti di attività edilizia nei sobborghi fuori porta. E queste città non erano a molte giornate di marcia l’una dall’altra, e separate da paludi e foreste impenetra­bili, come avveniva in Germania, ma a poche ore appena di strada selciata, così come i Romani le avevano edificate via via che colonizzavano l’Italia. Quando Federico s’affacciò al Brenne­ro, le città lombarde erano così ricche e così sicure di sé che s’erano abituate a go­vernarsi come potenze autonome, facen­dosi la guerra a vicenda, mentre la debo­lezza degli imperatori ne aveva autorizza­ta qualcuna addirittura a battere mone­ta. I lombardi erano fieri della loro liber­tà: come scrisse lo zio del Barbarossa, il vescovo Ottone di Frisinga, si sentivano gli eredi degli antichi romani, e per que­sto chiamavano consoli i loro magistrati. Ma con tutta la loro fierezza, proseguiva Ottone, finivano per sprofondare nella barbarie, perché non riconoscevano più l’autorità dell’imperatore e della legge. Qualcuno di loro, a dire il vero, aveva già cominciato ad accorgersi delle con­seguenze catastrofiche di quella troppa libertà: erano gli abitanti delle piccole città, come Como, che rischiavano d’es­sere divorate dalle grandi, come Mila­no. Molti lombardi, in cuor loro, non erano poi così turbati all’idea che l’impe­ratore tornasse a imporre un po’ di ordi­ne centralizzato nella pianura padana. Ma non i milanesi: loro sentivano di ave­re da guadagnare più di tutti dall’assen­za di limiti e di leggi. Con la propagan­da, con il denaro, con la forza convinse­ro molte altre città, alcune entusiaste ed altre riluttanti, a unirsi con loro in una Lega per tener testa all’imperatore e far fallire il suo progetto accentratore. L’esi­to dello scontro fu deciso a Legnano il 29 maggio 1176: resta da chiedersi se sia stato un bene o un male per l’Italia che la costruzione di uno Stato nazionale av­viata, in altri Paesi, dai colleghi del Bar­barossa abbia dovuto attendere per rea­lizzarsi fino al XIX secolo, fino, cioè, a quel Risorgimento che ironicamente avrebbe additato nell’imperatore tede­sco il peggiore dei tiranni. Alessandro Barbero