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 2009  aprile 02 Giovedì calendario

Steinbeck: di che cosa parliamo quando parliamo dell’America (+ articolo di Steinbeck). Corriere della Sera, giovedì 2 aprile Lo Steinbeck che scri­ve i tre articoli ora ri­pubblicati dall’Euro­peo non è più il ragaz­zo con il ciuffo impomatato di quel famoso ritratto ai tempi di Pian della tortilla, giacca di camoscio e t-shirt nera, sguar­do severo da difensore degli oppressi e sorriso smargiasso come quello dei pirati che amava tanto da bambino

Steinbeck: di che cosa parliamo quando parliamo dell’America (+ articolo di Steinbeck). Corriere della Sera, giovedì 2 aprile Lo Steinbeck che scri­ve i tre articoli ora ri­pubblicati dall’Euro­peo non è più il ragaz­zo con il ciuffo impomatato di quel famoso ritratto ai tempi di Pian della tortilla, giacca di camoscio e t-shirt nera, sguar­do severo da difensore degli oppressi e sorriso smargiasso come quello dei pirati che amava tanto da bambino. Questi tre piccoli saggi che, quasi mezzo secolo più tardi, ci raccontano ancora così stra­ordinariamente bene di cosa parliamo quando parliamo d’America sono firmati dallo Steinbeck vecchio e malato delle ultime fotografie, i capel­li grigi e radi, i capillari rotti sulle guance da irlandese, ma gli occhi ancora di quel blu quasi trasparente, sempre cu­riosi e magnetici: firma queste storie l’acclamato scrittore pre­miato con quel Nobel che – a volte l’umiltà è la virtù dei grandi – pensava di non meri­tare fino in fondo, il sessanten­ne che sapeva di non avere an­cora molto da vivere a causa del cuore malato che avrebbe infatti smesso di battere sol­tanto due anni dopo, il 20 di­cembre 1968. Steinbeck, nel 1960, aveva attraversato l’America sul fur­gone con roulotte Ronzinante, accompagnato solo dal cane Charley, quindicimila chilome­tri on the road per dire addio al Paese che aveva tanto ama­to e alle storie del quale aveva dedicato la vita (le storie rica­vate da quel sono pubblicate in Viaggio con Charley, edito da Rizzoli nella Bur). il viag­gio con Charley, nell’anno del­l’elezione di John Kennedy, a far tornare Steinbeck ragazzo: perché se raccontare l’Ameri­ca degli umili è stato il lavoro della sua vita, l’autore di Uomi­ni e topi e Furore – che stava per essere elevato tra i sommi, i premiati con il Nobel, il salot­to più esclusivo della letteratu­ra mondiale – guida attraver­so le campagne evitando città e autostrade, raccoglie auto­stoppisti, fa amicizia nei picco­li ristoranti, nei bar e nei nego­zi di liquori (oltre al cane Char­ley, di nazionalità francese, lo accompagnano anche numero­se casse di whisky, per ogni evenienza). Gli articoli ora ripubblicati dall’Europeo non fanno sconti alle divisioni dell’America; ma Steinbeck le vede sempre co­me un elemento umano – il razzista bieco del Sud che non sopporta l’idea di bambini ne­ri nella stessa scuola dei suoi figli, il ragazzo nero che, se e quando potrà legalmente en­trare nei ristoranti dei bian­chi, resterà comunque un citta­dino di serie «B». Steinbeck, che aveva fatto infuriare la de­stra difendendo il suo amico Arthur Miller dagli attacchi maccartisti, per poi suscitare lo sdegno della sinistra con il suo appoggio alla guerra in Vietnam non fa sconti e non giustifica ma cerca di capire. Questi articoli del ”66 sono un’analisi, un atto d’accusa ma anche e soprattutto una lette­ra d’amore al suo Paese: del quale ripete il motto quasi co­me una preghiera, e pluribus unum, «dalla moltitudine, una cosa sola», citazione da una poesia che parlava di colo­ri diversi che si fondono in una tinta unica ( melting pot in latino, insomma). Quattro anni prima, nel ”62, Steinbeck aveva vinto il Nobel, da lui accolto con un discorso (incluso in L’America e gli americani, edito da Alet) uni­co per modestia e umanità, in­no alla «capacità umana di grandezza di cuore e di spiri­to, di nobiltà nella sconfitta, di coraggio, compassione e amore» pronunciato davanti all’Accademia di Stoccolma. Perché lui non era uomo da sa­lotti letterari: era rimasto il ra­gazzo di Salinas, California, do­ve ora c’è un bel museo a lui dedicato, e Ronzinante è par­cheggiato proprio lì, al Centro Steinbeck, una reliquia. E’ il ca­ravan di Steinbeck: costruito da tedeschi del Michigan, re­staurato (benissimo) da un ita­liano, lucidato ogni giorno con cura da ragazzi messicani. E pluribus unum. Matteo Persivale *** Penso che, in grande misura, proprio questa crudeltà verso i nuovi venuti spieghi la rapidità con cui gli stranieri si fondono da ultimo con gli «americani». Il fenomeno si manifesta invariabilmente a livello della seconda generazione. Chi arriva subisce ogni genere di pressione, che lo fa sentire straniero; ma i giovani di ogni gruppo etnico rifiutano subito la lingua e il background d’origine. Nonostante l’ira, il disprezzo, la gelosia, nonostante i ghetti e le segregazioni, qualcosa si perde quando si pone piede in America. Le nuove generazioni vogliono essere americane più che polacche o tedesche o inglesi. Nel giro di una o al massimo due generazioni (certamente mai in più di tre), ogni gruppo etnico si inserisce nel «pluribus». Se leggiamo i nomi degli atleti che compongono la squadra dell’università di Nôtre Dame (nello Stato dell’Indiana, ndr) chiamata «The Fighting Irish» non ci appare stonato che siano polacchi, sloveni, italiani: perché il gruppo, nel suo assieme, è «The Fighting Irish», gli irlandesi che si battono. Non vi sono dubbi, secondo me, che in America ogni luogo imprima come un marchio su chi vi nasce; non mi riferisco solo all’accento e alla lingua, ma addirittura alla statura, all’aspetto, alla conformazione fisica. Il clima avrà certo la sua parte in questo fenomeno, come la avranno i cibi che si consumano nei diversi punti d’America, lo standard e le tecniche di vita. un fatto, comunque, che ciascuno di noi può subito individuare lo straniero. Anni or sono, quando vivevo nelle campagne del Southwest, tra fiumi di genti migranti, ero fiero di saper distinguere un americano dell’Oklahoma da uno dell’Arkansas: e tutti e due da quello di un altro Stato. Il cittadino dell’Oklahoma parla uno stretto dialetto regionale, è vero. Ma sapevo riconoscerlo prima che aprisse bocca, da altri segni: il portamento, la struttura del viso, il modo di camminare. Una volta, e mentre appunto mi complimentavo fra me e me di questa mia abilità, il ragazzone alto e magro che avevo appena classificato per un rampollo dell’Oklahoma mi disse: «E tu sei della California». «Come lo hai capito?», chiesi, con una punta di sorpresa. «Ma perché sembri», rispose, «uno della California». Né, prima d’allora, mi era mai venuto il sospetto che ci potesse essere un modo di «sembrare californiani». Ho vissuto e viaggiato in molti Paesi stranieri dove sono frequenti le venature di sangue irlandese e scozzese, inglese e tedesco che ho ereditato dai miei antenati. Il mio volto è caratterizzato dai tratti, belli o brutti, dei progenitori lontani. Ho gli occhi di un blu «nordico», i miei capelli avevano quel non-colore che si è convenuto di definire castano. Ho le guance floride, con le venuzze sottili affioranti, caratteristiche degli scozzesi e degli irlandesi del Nord. John Steinbeck