Matteo Persivale, Corriere della Sera 2/4/2009, pagina 38, 2 aprile 2009
Steinbeck: di che cosa parliamo quando parliamo dell’America (+ articolo di Steinbeck). Corriere della Sera, giovedì 2 aprile Lo Steinbeck che scrive i tre articoli ora ripubblicati dall’Europeo non è più il ragazzo con il ciuffo impomatato di quel famoso ritratto ai tempi di Pian della tortilla, giacca di camoscio e t-shirt nera, sguardo severo da difensore degli oppressi e sorriso smargiasso come quello dei pirati che amava tanto da bambino
Steinbeck: di che cosa parliamo quando parliamo dell’America (+ articolo di Steinbeck). Corriere della Sera, giovedì 2 aprile Lo Steinbeck che scrive i tre articoli ora ripubblicati dall’Europeo non è più il ragazzo con il ciuffo impomatato di quel famoso ritratto ai tempi di Pian della tortilla, giacca di camoscio e t-shirt nera, sguardo severo da difensore degli oppressi e sorriso smargiasso come quello dei pirati che amava tanto da bambino. Questi tre piccoli saggi che, quasi mezzo secolo più tardi, ci raccontano ancora così straordinariamente bene di cosa parliamo quando parliamo d’America sono firmati dallo Steinbeck vecchio e malato delle ultime fotografie, i capelli grigi e radi, i capillari rotti sulle guance da irlandese, ma gli occhi ancora di quel blu quasi trasparente, sempre curiosi e magnetici: firma queste storie l’acclamato scrittore premiato con quel Nobel che – a volte l’umiltà è la virtù dei grandi – pensava di non meritare fino in fondo, il sessantenne che sapeva di non avere ancora molto da vivere a causa del cuore malato che avrebbe infatti smesso di battere soltanto due anni dopo, il 20 dicembre 1968. Steinbeck, nel 1960, aveva attraversato l’America sul furgone con roulotte Ronzinante, accompagnato solo dal cane Charley, quindicimila chilometri on the road per dire addio al Paese che aveva tanto amato e alle storie del quale aveva dedicato la vita (le storie ricavate da quel sono pubblicate in Viaggio con Charley, edito da Rizzoli nella Bur). il viaggio con Charley, nell’anno dell’elezione di John Kennedy, a far tornare Steinbeck ragazzo: perché se raccontare l’America degli umili è stato il lavoro della sua vita, l’autore di Uomini e topi e Furore – che stava per essere elevato tra i sommi, i premiati con il Nobel, il salotto più esclusivo della letteratura mondiale – guida attraverso le campagne evitando città e autostrade, raccoglie autostoppisti, fa amicizia nei piccoli ristoranti, nei bar e nei negozi di liquori (oltre al cane Charley, di nazionalità francese, lo accompagnano anche numerose casse di whisky, per ogni evenienza). Gli articoli ora ripubblicati dall’Europeo non fanno sconti alle divisioni dell’America; ma Steinbeck le vede sempre come un elemento umano – il razzista bieco del Sud che non sopporta l’idea di bambini neri nella stessa scuola dei suoi figli, il ragazzo nero che, se e quando potrà legalmente entrare nei ristoranti dei bianchi, resterà comunque un cittadino di serie «B». Steinbeck, che aveva fatto infuriare la destra difendendo il suo amico Arthur Miller dagli attacchi maccartisti, per poi suscitare lo sdegno della sinistra con il suo appoggio alla guerra in Vietnam non fa sconti e non giustifica ma cerca di capire. Questi articoli del ”66 sono un’analisi, un atto d’accusa ma anche e soprattutto una lettera d’amore al suo Paese: del quale ripete il motto quasi come una preghiera, e pluribus unum, «dalla moltitudine, una cosa sola», citazione da una poesia che parlava di colori diversi che si fondono in una tinta unica ( melting pot in latino, insomma). Quattro anni prima, nel ”62, Steinbeck aveva vinto il Nobel, da lui accolto con un discorso (incluso in L’America e gli americani, edito da Alet) unico per modestia e umanità, inno alla «capacità umana di grandezza di cuore e di spirito, di nobiltà nella sconfitta, di coraggio, compassione e amore» pronunciato davanti all’Accademia di Stoccolma. Perché lui non era uomo da salotti letterari: era rimasto il ragazzo di Salinas, California, dove ora c’è un bel museo a lui dedicato, e Ronzinante è parcheggiato proprio lì, al Centro Steinbeck, una reliquia. E’ il caravan di Steinbeck: costruito da tedeschi del Michigan, restaurato (benissimo) da un italiano, lucidato ogni giorno con cura da ragazzi messicani. E pluribus unum. Matteo Persivale *** Penso che, in grande misura, proprio questa crudeltà verso i nuovi venuti spieghi la rapidità con cui gli stranieri si fondono da ultimo con gli «americani». Il fenomeno si manifesta invariabilmente a livello della seconda generazione. Chi arriva subisce ogni genere di pressione, che lo fa sentire straniero; ma i giovani di ogni gruppo etnico rifiutano subito la lingua e il background d’origine. Nonostante l’ira, il disprezzo, la gelosia, nonostante i ghetti e le segregazioni, qualcosa si perde quando si pone piede in America. Le nuove generazioni vogliono essere americane più che polacche o tedesche o inglesi. Nel giro di una o al massimo due generazioni (certamente mai in più di tre), ogni gruppo etnico si inserisce nel «pluribus». Se leggiamo i nomi degli atleti che compongono la squadra dell’università di Nôtre Dame (nello Stato dell’Indiana, ndr) chiamata «The Fighting Irish» non ci appare stonato che siano polacchi, sloveni, italiani: perché il gruppo, nel suo assieme, è «The Fighting Irish», gli irlandesi che si battono. Non vi sono dubbi, secondo me, che in America ogni luogo imprima come un marchio su chi vi nasce; non mi riferisco solo all’accento e alla lingua, ma addirittura alla statura, all’aspetto, alla conformazione fisica. Il clima avrà certo la sua parte in questo fenomeno, come la avranno i cibi che si consumano nei diversi punti d’America, lo standard e le tecniche di vita. un fatto, comunque, che ciascuno di noi può subito individuare lo straniero. Anni or sono, quando vivevo nelle campagne del Southwest, tra fiumi di genti migranti, ero fiero di saper distinguere un americano dell’Oklahoma da uno dell’Arkansas: e tutti e due da quello di un altro Stato. Il cittadino dell’Oklahoma parla uno stretto dialetto regionale, è vero. Ma sapevo riconoscerlo prima che aprisse bocca, da altri segni: il portamento, la struttura del viso, il modo di camminare. Una volta, e mentre appunto mi complimentavo fra me e me di questa mia abilità, il ragazzone alto e magro che avevo appena classificato per un rampollo dell’Oklahoma mi disse: «E tu sei della California». «Come lo hai capito?», chiesi, con una punta di sorpresa. «Ma perché sembri», rispose, «uno della California». Né, prima d’allora, mi era mai venuto il sospetto che ci potesse essere un modo di «sembrare californiani». Ho vissuto e viaggiato in molti Paesi stranieri dove sono frequenti le venature di sangue irlandese e scozzese, inglese e tedesco che ho ereditato dai miei antenati. Il mio volto è caratterizzato dai tratti, belli o brutti, dei progenitori lontani. Ho gli occhi di un blu «nordico», i miei capelli avevano quel non-colore che si è convenuto di definire castano. Ho le guance floride, con le venuzze sottili affioranti, caratteristiche degli scozzesi e degli irlandesi del Nord. John Steinbeck