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 2009  aprile 03 Venerdì calendario

Effetto Wall Street: Usa come l’Argentina? Corriere della Sera, venerdì 3 aprile Abituati, come siamo da decenni, a temere al­ternativamente l’imperialismo economico degli Usa o le periodiche tentazioni della grande democrazia americana di chiudersi nell’isolazionismo, non ci è mai nemmeno venuto in mente di paragonare il sistema economico de­gli Stati Uniti a quello di un Paese in via di sviluppo o a una repubblica dominata da oligarchi

Effetto Wall Street: Usa come l’Argentina? Corriere della Sera, venerdì 3 aprile Abituati, come siamo da decenni, a temere al­ternativamente l’imperialismo economico degli Usa o le periodiche tentazioni della grande democrazia americana di chiudersi nell’isolazionismo, non ci è mai nemmeno venuto in mente di paragonare il sistema economico de­gli Stati Uniti a quello di un Paese in via di sviluppo o a una repubblica dominata da oligarchi. Il paragone rimane, a mio avviso, improponibile, ma un indicatore della profondità della crisi nella quale è sprofondata Washington è il fatto che alcuni autorevoli economisti, tanto di destra quanto di sinistra, hanno pubblicato in questi giorni articoli e saggi nei quali so­stengono che anni di comportamenti irresponsabili di Wall Street hanno trasformato l’America in un mercato simile a quello dei Paesi emergenti. Simon Johnson, un professore del Mit di Boston che è stato fino all’anno scorso il capo degli economisti del Fon­do Monetario Internazionale, scrive sull’ultimo numero dell’«Atlantic» che l’odierna crisi americana gli ricorda quelle nelle quali sprofondarono, una decina d’anni fa, Pae­si come Argentina, Russia e Malesia. «Un settore finanzia­rio iperindebitato che, alla fine, mette in fuga gli investito­ri globali: è quello che era accaduto allora in quei Paesi. Ed è esattamente quello che ha portato Lehman Brothers alla bancarotta nel settembre scorso». I «signori dell’universo» della finanza Usa - sostiene Johnson - si sono comporta­ti come gli oligarchi russi: hanno fatto speculazioni scriteriate, si sono assunti rischi enormi scommetten­do sul fatto che, in caso di difficoltà, il governo non li avrebbe lasciati fallire. Johnsono usa un linguag­gio radicale (parla perfino di «rischio banana repu­blic » per gli Usa) che piace agli economisti della sinistra «liberal» come Paul Krug­man. Che, infatti, lo cita spesso nei suoi attacchi contro la Casa Bianca. Ma le analisi di Johnson in passato sono state prese molto sul serio anche da Larry Summers, ora super­consigliere di Obama. Colpisce ancora di più il fatto che un personaggio come Desmond Lachman, un ex dirigente del Fondo Monetario con un profilo molto diverso - è sta­to banchiere d’affari a Wall Street, oggi è un analista dell’ American Enterprise Institute, «fortezza» del pensiero economico conservatore - formuli giudizi che coincidono con quelli di Johnson: «Quando, dieci anni fa, giravo per i Paesi in crisi per conto del FMI - ha scritto sul Washington Post - mi sentivo un uomo fortunato: venivo da un Paese, gli Usa, dove situazioni come quelle che avevo davanti agli occhi mi sembravano addirittura inimmaginabili. Invece oggi, mentre altri economisti temono che l’America possa vivere un «decennio perduto», come il Giappone degli anni ’90, io temo, invece, che il nostro Paese possa somigliare sempre più all’Argentina o alla Russia. Che debba affrontare problemi tipici dei mercati emergenti». Gli Usa hanno flessibilità e capacità di recupero straordinarie: sapranno voltare pagina. Ma riconquistare la cre­dibilità perduta non sarà facile, come, nonostante il suo enorme carisma personale, ha appena sperimentato, a Londra, Barack Obama. Massimo Gaggi