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 2009  aprile 03 Venerdì calendario

Segio Rizzo intervista Marco Vitale. Corriere della Sera, venerdì 4 aprile «Tra le principali cau­se di degenerazione del modello americano c’è anche lo squilibrio politico-sociale a favore del top management delle grandi società che ha permesso a questa nuova aristocrazia di appropriarsi di cor­rispettivi che non hanno più alcu­na relazione con le prestazioni for­nite, con i risultati raggiunti, con l’andamento reale delle aziende»

Segio Rizzo intervista Marco Vitale. Corriere della Sera, venerdì 4 aprile «Tra le principali cau­se di degenerazione del modello americano c’è anche lo squilibrio politico-sociale a favore del top management delle grandi società che ha permesso a questa nuova aristocrazia di appropriarsi di cor­rispettivi che non hanno più alcu­na relazione con le prestazioni for­nite, con i risultati raggiunti, con l’andamento reale delle aziende». Quando l’economista Marco Vita­le, per anni partner della Arthur Andersen, scriveva queste parole sul Corriere era settembre del 2002 e gli Stati Uniti erano reduci dallo scandalo Enron: il più gran­de crac finanziario della storia americana, almeno fino al 2008. Ma in Italia la sua era una voce an­cora piuttosto isolata. E in Ameri­ca nessuno aveva messo sotto ac­cusa le retribuzioni d’oro. Meno che mai aveva parlato di mettere un tetto ai superstipendi. Ma alla Casa Bianca non c’era Barack Obama. Dico bene, pro­fessor Vitale? «Obama continua a finanziare con cifre enormi Wall Street...» La lezione allora non è servita? «Forse sì. Ma questo dimostra come l’establishment americano sia ancora potentissimo. Per loro la cosa più importante è ristabili­re il ruolo predominante della fi­nanza sull’economia». Confortante. «Ma la spinta dal basso è tal­mente forte che alla fine anche questo scoglio verrà superato, ma non sarà facile. I padroni degli Usa erano i banchieri e questo crol­lo di classe dirigente è paragonabi­le a quanto accaduto nell’Urss». Il settimanale inglese Econo­mist ha dedicato 14 pagine ai ric­chi «sotto attacco» per l’incapa­cità e l’avidità che hanno portato alla crisi. Condivide quei giudi­zi? «I guadagni di questa gente non avevano più alcun rapporto con la realtà delle cose e con i risultati del loro lavoro. Erano prelievi feu­dali di una intera classe dirigente protagonista di performance a dir poco pessime. Quello che è acca­duto non è stato provocato da una guerra o da uno tsunami. Sempli­cemente, hanno sbagliato loro». I famosi errori umani. «A un altissimo dirigente di Citi­corp ho chiesto di chi fosse la col­pa. Mi ha risposto senza esitare: innanzitutto nostra. Erano diven­tati signorotti feudali». Anche in Europa e Italia? «Tranne qualche caso è stato molto diverso». Come si spiegano allora i se­questri di manager a ripetizione in molti Paesi? «Quando scatta il risentimento sociale si rischia di fare di tutta l’erba un fascio». Come distinguere? «Per esempio credo che la colle­ra nei confronti dei supermanager finanziari, classe feudale arricchi­tasi a dismisura senza ragione, fal­lendo totalmente, sia assoluta­mente giustificata. Non così per i manager sequestrati della Caterpil­lar ». Qual è la differenza? «Nel loro caso il risentimento è comprensibile ma non giustifica­bile: quei manager sono vittime del processo di aggiustamento del­l’economia. Bisogna che lo Stato sostenga i processi di ristruttura­zione e ricambio. Prendiamo il ca­so dell’auto. La capacità produtti­va mondiale è di 60 milioni di vet­ture l’anno. La domanda è di 30 milioni. Bisognerà chiudere molti stabilimenti, e non sarà facile né indolore». In Francia hanno sequestrato anche François-Henri Pinault. «Lui non è un manager, è un pa­drone. Quel fatto è stato un avver­timento ai padroni: non vi potete chiamare fuori». La appassiona il dibattito sui tetti alle super retribuzioni? Può essere una soluzione praticabile e soprattutto accettabile? «I compensi senza giustificazio­ni sono stati possibili perché non esisteva nella società un bilancia­mento dei poteri. un problema che va affrontato alle fondamen­ta ». In che modo? «Cambiando le regole della go­vernance. Il problema non si risol­ve con un tetto». Magari anche vietando i titoli tossici. Non crede? «Su questo siamo d’accordo. Le regole della finanza vanno ripen­sate completamente. Ma non si improvvisano». Se anche l’Italia non è piomba­ta nel Medioevo dei nuovi signo­rotti medievali, come li definisce lei, c’è comunque andata vicino. Dieci anni fa un banchiere non avrebbe guadagnato in un solo anno come un suo dipendente in duecento. «Perché anche in Italia è esplo­sa l’ideologia ipercapitalista, in as­senza di dialettica». Dialettica? «La sinistra che doveva essere critica, è diventata essa stessa iper­capitalista. Non soltanto non ha al­zato le difese, ma ha addirittura as­secondato questa esplosione con l’entusiasmo dei neofiti». E nessuno paga mai. Sbaglio? «L’America ha consentito ecces­si e abusi ma è sempre stata pron­tissima nel punire. Quando è scop­piato il caso Enron le autorità Usa sono intervenute subito e questi signori sono stati giudicati e con­dannati. Alcuni di loro, se non ri­cordo male, sono ancora in gale­ra ». In Italia, invece... «Già. Ma ora anche negli Stati Uniti è impressionante la cautela che viene utilizzata nel chiamare questa classe dirigente a risponde­re dei suoi clamorosi fallimenti». Perché? «Questa è senza dubbio la crisi più grave di tutti i tempi. Ha gene­rato una tale paura che un simile comportamento è il termometro della sua gravità. Il sistema è arri­vato alla conclusione che non c’era il tempo per punire. Insom­ma, si è data la priorità a sistema­re le cose». Sergio Rizzo