Guido Ceronetti, La Stampa 2/4/2009, 2 aprile 2009
Un insieme di leggendari difetti (da renderlo, si diceva, amabilmente invivibile) e l’arcana cifra di una genialità specifica nel far passare i libri dal Caos d’ombra delle parole all’evento che, superficialmente, la lingua ordinaria chiama «pubblicazione» - tale fu, nel secolo europeo XX, Giulio Einaudi
Un insieme di leggendari difetti (da renderlo, si diceva, amabilmente invivibile) e l’arcana cifra di una genialità specifica nel far passare i libri dal Caos d’ombra delle parole all’evento che, superficialmente, la lingua ordinaria chiama «pubblicazione» - tale fu, nel secolo europeo XX, Giulio Einaudi. Al suo alone mi avvicinai poco. Ebbi a che fare sempre coi suoi collaboratori - cioè con la Casa da lui fondata. I libri Einaudi d’epoca ancora fascista restano memorabili: mi generarono lettore. La casa di tolleranza più volentieri frequentata, con vivo senso del peccato, da giovani in cerca di qualcosa d’impreciso e dai lettori di vita, era la bancarella, radunata di meretrici non sempre fresche dalla bassa tariffa. Nel 1950 scoprii i bouquinistes dei lungosenna, ma a Torino c’erano anche i chioschetti incrostati ai portici, e buona parte ne è arrivata fino a questo oltreduemila dopo Cristo. La bancarella torinese cominciò a migliorarmi un po’ lo squallore dell’esistenza all’età, circa, di quattordici-quindici anni; in specie, tra 1943 e 1945, fu evasione nelle notti di coprifuoco. Sono certo, ancora adesso, dei titoli che determinarono scelte di vita (lo Spinoza di Rensi edito da Bocca) e tra questi i libri Einaudi furono numerosi: le edizioni in carta avorio degli Ossi di seppia e delle Occasioni, i Narratori tradotti dalla copertina azzurra (oggi da collezione, vivi sempre) e nei Saggi contornati di rosso fu decisivo La crisi della civiltà dello storico olandese Johann Huizinga (credo fosse del 1938) che mi svegliò all’attenzione critica dei fenomeni del secolo. Montale mi fu ostico per parecchi anni. Non mi riusciva di digerire quel famoso attacco: Godi se il vento ch’entra nel pomario... E perché, entrando nel pomario, vi rimenava «l’ondata della vita»? Avrei mai potuto immaginare che a quel nome sconosciuto una trentina di anni dopo, insieme a mia moglie, avrei portato con reverenza fiori in via Bigli? Vecchio e senatore venne una volta in casa nostra, vicino a Roma, con Paolo Milano e avrei voluto chiedergli di firmarmi quella edizione Einaudi degli Ossi: fui bloccato dal Timido interno, mai del tutto guarito. Opprimente e oppressiva divenne l’Editrice a causa dell’ambiente che la teneva sequestrata nel periodo di conversione di Giulio Einaudi all’ortodossia totalitaria più ciecamente stalinista. Un demone incubo, che gravava su tutto, un capriccio dell’uomo, che esercitava il fascino di una dittatura culturale, richiamando autori sovietici e altra perfetta illeggibilità. Volendo essere alla moda, mi caricai di letture einaudiane di puntiglioso perditempo. Ero andato in trance per Dieci giorni che sconvolsero il mondo, che non era noioso, ma pestare nel marxismo maniacale di Quando l’America diventò nazione indica, da parte mia, più ottusità che pazienza. Ma c’era di mezzo quella porca ruffiana della Corazzata! Ero della generazione, nel post-Duce e Impero, della Corazzata! La Corazzata Potemkin! Tutti rotolati sui gradini della Scalinata di Odessa, fino in fondo e più giù ancora... Il giorno dopo la magica abbeverata i giovani spettatori correvano a iscriversi al Pci, ma qui fui lucido, alla larga dalle sezioni e dai loro predicatori... Non ho mai amato i problemi giuridici, e un autore allora notissimo dirigente comunista, Antonio Giolitti, altro einaudiano delle grandi covate, mi aveva tentato, tuttavia... Illeggibile a morte, povero Giolitti, che nel 1956 ebbe il merito, con Calvino e Bollati, di buttare la tessera... In un capitolo dei suoi (al contrario di Giolitti, leggibilissimi) I migliori anni della nostra vita, Ernesto Ferrero ha raccontato, con molta piacevolezza e lusinghiero acume, i miei esordi da Einaudi, come traduttore, a partire dal 1961. Data veridica e ufficiale, ma avevo giù avuto contatti formali con l’Editore temuto, ancora in epoca Pavese, nei due anni prima dell’Hôtel Roma: gli avevo taciuto il mio incurabile anticomunismo e proposto (quale astuzia!) un saggio anti Patto Atlantico (futura Nato): scrivevo versi, ma la via più corta, da Einaudi, era proporgli politica. Mi rispose, infatti, con molto interesse, e sarebbe stato per lui uno scivolone... Tempestivamente, quantunque ancora minimamente Potemkin per amore di Eizenstejn, dopo tre anni di lavoro, saggiamente consigliato, buttai il manoscritto nel cesso. Amen! Giulio Einaudi non sprecava elogi. Da lui, esplicitamente, ne ricevetti uno solo, incontrandolo nel corridoio di via Biancamano 1: aveva appena pubblicato la mia versione di tutti gli Epigrammi di Valerio Marziale, lavoro enorme mio tra il Collegio Romano e le rovine del Palatino dove tiravo su come da una calabaza di màte immaginari succhi di Subura domizianea, spesso dopo mezzanotte (Roma era sicura, mai brutti incontri!). Einaudi mi lodò quel lavorone di poesia con autentica liberalità e convinzione - roba da sprofondare!! A confermarne il genio editoriale, nello stesso corridoio - era ancora il patron, ma per poco - mi chiese di fargli «qualcosa di narrativo»; risposi che ci avrei pensato, ben sapendo di non avere nessun talento a narrare. Finii per proporgli di fare un viaggio attraverso l’Italia - e fu, nel 1983, Un viaggio in Italia, che uscì nei Saggi, come desideravo, e anni dopo nella Narrativa, come profetizzato dall’Oracolo e dalla sua misteriosa sensibilità delfica, in quell’incontro durato meno di trenta secondi, mentre ne declinava materialmente il potere - intatto e perdurante, sugli autori in atto e futuri, il carisma.