Mario Deaglio, La Stampa, 2/4/2009, 2 aprile 2009
L’AMERICA E GLI ALTRI
difficile prevedere come finirà la riunione del G20 che si apre oggi a Londra, la cui vigilia è stata caratterizzata non solo da violente manifestazioni, ma anche da forti differenze d’opinione tra i partecipanti. però già possibile dire che cosa non succederà: da questa tempestosa conferenza non verrà fuori, come per colpo di bacchetta magica, la soluzione della crisi in atto. Nel migliore dei casi, a un accordo sui principi farà seguito una fase, più o meno lunga, di messa a punto tecnica di provvedimenti concordati, destinati a rimettere in pista l’economia globale.
Questo scenario è però di difficile realizzazione. Il problema, infatti, non è quello di gonfiare allegramente la spesa pubblica americana nella speranza (flebile) che un simile gonfiamento basti da solo a far ripartire l’economia mondiale senza provocare un’inflazione globale; si tratta invece di decidere se sia possibile e desiderabile la continuazione del primato finanziario del dollaro. Si è voluto paragonare la riunione di Londra alla conferenza di Bretton Woods del 1944, ma allora la conferenza monetaria era funzionale al nuovo ordine mondiale che gli eserciti alleati stavano costruendo.
Oggi invece, molti, soprattutto a Washington, vorrebbero cambiare il sistema monetario lasciando invariato l’ordine mondiale.
Per l’interazione di motivi economici e politici il vertice si presenta articolato a diversi livelli. Il più importante è quello dell’incontro-scontro tra Stati Uniti e Cina: tra il maggiore debitore del mondo e il suo maggiore creditore, due accaniti avversari che competono per la supremazia economica (e politica) ma che si trovano sulla stessa barca e devono cooperare perché la barca non affondi. Gli Stati Uniti non possono fare a meno dell’impegno della Cina a non vendere i titoli in suo possesso emessi dal Tesoro di Washington e a sottoscriverne altri; per continuare a crescere con l’elevata velocità di cui ha bisogno, la Cina, dal canto suo, difficilmente può fare a meno delle esportazioni verso gli Stati Uniti, destinate a essere pagate in dollari.
Basterà quest’interesse comune a farli andare d’accordo? molto difficile dirlo. Gli Stati Uniti danno per scontato che il dollaro continui a essere la stella fissa dell’universo delle valute, i cinesi hanno già fatto sapere che vorrebbero sostituirlo con una «moneta artificiale», una sorta di «paniere di monete», delle quali il dollaro rimarrebbe la più importante, perdendo però le sue caratteristiche di unicità. Una nuova moneta per gli scambi dell’economia globale sarebbe forse la soluzione migliore per cancellare il recente passato monetario, i mutui subprime e i titoli tossici. Rappresenterebbe però un’evidente riduzione del potere finanziario americano ed è molto dubbio che il neo-presidente degli Stati Uniti possa accettarla.
Dalla definizione di questi rapporti complessi sapremo se esistono davvero le condizioni politiche per un’uscita dalla crisi, senza le quali gli esercizi dei tecnici della finanza paiono di scarsa utilità. La risposta, però, non l’avremo dal comunicato stampa ma dal comportamento concreto dei governi e delle banche centrali nelle prossime settimane e nei prossimi mesi.
Il secondo livello è quello delle regole per la finanza mondiale. Come unico Paese veramente «sovrano» gli Stati Uniti sono molto riluttanti ad accettare che un organismo internazionale possa estendere i suoi controlli alle banche americane, così come resistono all’idea che i tribunali internazionali possano giudicare cittadini americani. Su questo punto insistono gli europei, e in particolare i francesi, forse nel tentativo di mostrare che gli Stati Uniti sono «un Paese come gli altri», forse per giustificare, in caso di un «no» americano, l’adozione da parte dell’Unione Europea di misure protezionistiche. Questa spaccatura di fondo potrebbe risultare paralizzante e costituisce il maggior rischio di fallimento del vertice.
Esiste poi il livello dei problemi specifici, marginali in questo convegno ma fondamentali per gli equilibri del pianeta, in cui i progressi sembrano meno difficili: per essere efficaci, le politiche ambientali ed energetiche devono poter contare su una solida base di finanziamenti internazionali; settori molto diversi, da quello della farmaceutica a quello della musica, necessitano di normative mondiali sui diritti d’autore; l’emergenza africana non può essere affrontata con successo in ordine sparso. Qui le convergenze appaiono maggiormente possibili e contribuiscono a non far perdere le speranze.
Settantasei anni fa, nella stessa Londra, si svolse un’analoga conferenza, a pochi chilometri dalla sede di quella attuale, convocata per porre rimedio ai guasti della crisi mondiale iniziata nel 1929. Essa fallì, perché gli Stati Uniti del presidente Roosevelt rivendicarono, anche allora, l’«eccezionalità» americana. E i partecipanti, lasciata la capitale inglese, imboccarono ciascuno la via del proprio protezionismo; una via che contribuì a portarci alla seconda guerra mondiale. I capi di Stato che si riuniscono oggi dovrebbero avere sempre davanti gli occhi questo precedente storico.