Vera Schiavazzi, la Repubblica 30/3/2009, 30 marzo 2009
SE IL VIRUS DELLA CRISI SI NASCONDE DA MAXIBANCHE
Obiettivo del prossimo G20 è ridefinire l´architettura del sistema finanziario mondiale. Un problema complesso, ma sintetizzabile in tre parole: troppa leva finanziaria.
L´iniziale crisi finanziaria si è trasformata in una crisi globale delle banche, indebolite da un livello di capitalizzazione troppo esiguo rispetto ai rischi in portafoglio. Eppure, quello bancario è il settore economico più regolamentato, e con regole uniformi, sancite da un accordo internazionale (Basilea). Quindi, la riforma del sistema finanziario deve partire dall´attuale regolamentazione bancaria. Su una cosa, c´è già il consenso. L´attuale sistema è pro-ciclico: scoraggia l´accumulazione di capitale da parte delle banche quando il valore delle attività sale, e le costringe a ricapitalizzarsi quando i mercati crollano, aggravando il crollo. Si vuole imporre l´opposto: accantonare risorse quando le cose vanno bene, per avere più patrimonio nelle fasi difficili. Un sistema con coefficienti patrimoniali variabili in funzione dell´andamento dei mercati richiede però un´unica entità che li determina (o un coordinamento internazionale), per evitare che diventi un modo per favorire le banche locali. Solo le banche centrali possono farlo, visto che la variazione del patrimonio bancario equivale a una manovra creditizia. Attualmente però non esiste un organo di coordinamento delle banche centrali, e le più importanti (Fed, Bce) non hanno il potere di vigilanza. Inoltre, variare i coefficienti patrimoniali in funzione della dinamica dei prezzi delle attività presuppone che la gestione della politica monetaria tenga in considerazione anche l´andamento dei mercati finanziari: una rivoluzione rispetto allo status quo.
Sotto accusa anche le regole che impongono valutazioni contabili prossime ai prezzi di mercato (Mark-to-market, Mtm): dati i vincoli patrimoniali, se il prezzo delle attività scende le banche sono costrette a venderle, accentuando il crollo di quelle poco liquide. Qui si confondono causa ed effetto: la colpa non è del Mtm, ma dei coefficienti patrimoniali fissi; e dell´esistenza di titoli (come quelli "tossici") che sono privi di mercati funzionanti, e hanno quindi prezzi non significativi e manipolabili. Sarebbe molto più logico richiedere che gli strumenti finanziari siano negoziati in mercati organizzati e regolati, e margini di garanzia del 100% se non lo sono. L´ammontare di futures e opzioni scambiati nei mercati organizzati è circa il triplo degli strumenti derivati creati e negoziati direttamente dalle banche, eppure non hanno mai provocato grandi dissesti, o una crisi sistemica. Il Mtm è invece essenziale per la trasparenza e la fiducia: attenuarlo, permetterebbe solo ai banchieri di non ammettere di aver investito male.
Il terzo aspetto è il calcolo dei coefficienti patrimoniali. Oggi le banche lo calcolano pesando ogni attività per il suo grado di rischio, sulla base di un rating stimato da loro stesse. Così, troppe banche hanno moltiplicato esponenzialmente la leva, investendo in titoli con rating AAA. Per questo sarebbe necessario un indicatore complessivo di indebitamento, basato sul totale dell´attivo rischioso (senza ponderazioni) e il patrimonio effettivamente accumulato (senza debito mascherato).
L´evoluzione finanziaria ha creato molte entità che operano con una leva elevata, pur non essendo banche: assicurazioni, società finanziarie di gruppi industriali, intermediari, private equity, fondi hedge. Se lo scopo della riforma è conoscere e controllare il livello di leva del sistema, l´indicatore complessivo di indebitamento dovrebbe essere esteso anche alle entità non bancarie. Rimane il problema della supervisione a livello globale: regole nazionali servirebbe solo a spostare i capitali altrove. Tuttavia, di per sé la troppa leva non è il principale problema: la vera fonte dell´attuale crisi è la dimensione eccessiva delle istituzioni finanziarie. Dissesti bancari per eccesso di rischio, e crash per troppi debiti, ci sono sempre stati. Ma non hanno mai generato crisi sistemiche perché la dimensione del dissesto permetteva al mercato di trovare una soluzione, eventualmente con l´aiuto dello Stato: Banco di Napoli, Continental Illinois, Barings, il sistema bancario svedese degli anni �80 e quello giapponese nei �90. Oggi, la crisi tocca giganti che operano a 360° (credito, partecipazioni, intermediazione, gestione, derivati, etc.), spesso in conflitto di interessi, con un potere di mercato spropositato: troppo grandi per fallire senza travolgere il mondo. Cinque banche hanno originato due terzi di tutti i mutui americani; le attività di Ubs sono 4 volte il Pil della Svizzera; quelle di Unicredito, l´80% del Pil italiano; sette banche hanno organizzato il 60% delle fusioni e acquisizioni nel mondo.
Più che controllare la leva, bisognerebbe smembrare i grandi gruppi e scinderne le diverse attività in società specializzate indipendenti. Ne guadagnerebbero la stabilità del sistema finanziario, ma anche la concorrenza. Si potrebbe farlo ricorrendo alle leggi antitrust, o imponendolo come contropartita per il salvataggio coi soldi pubblici. Ma non è nell´agenda di nessuno. Eppure non sarebbe una novità. Fu questa la soluzione adottata negli Usa dopo la crisi del �29: spaccare i conglomerati dei robber barons e ripudiare la banca universale, per creare concorrenza e stabilità.