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 2009  marzo 28 Sabato calendario

DOVE FABBRICANO LA CHANEL


Se una borsa, e il suo contenuto, sono tra le cose più intime che una donna possiede, e una Chanel 2.55 in special modo, è logico aspettarsi che la sua fabbricazione sia protetta dal massimo segreto. Il che mi porta fino al cancello di un anonimo fabbricato moderno, a un’ora e mezza di auto da Parigi, dove il mio passaporto viene controllato due volte con una meticolosa procedura di sicurezza. Dall’altra parte dei cancelli c’è la fabbrica di borse Chanel: non che sembri un’industria, né che ci sia da qualche parte il famoso logo con la doppia C. Fuori è dipinta di grigio scuro, dentro, all’ingresso, ci sono gli schizzi di Karl Lagerfeld, il creativo supremo di Chanel e teche di vetro del tipo che si trova nelle gallerie d’arte che contengono, perfettamente allineate, le borse bianche dell’ultima collezione Chanel.
La mistica dei numeri

Al posto d’onore c’è l’indiscusso classico di Chanel: la 2.55, chiamata così dopo che Coco Chanel la lanciò nel febbraio 1955. Come molte altre icone di Chanel - soprattutto i profumi, il numero 5, il numero 19 - i numeri sono parte della mistica, codici legati all’origine dell’oggetto (il secondo mese del 1955, la quinta bottiglia di profumo, scelta da Mademoiselle in persona) e a volte al luogo dove l’oggetto ci condurrà (la prima fila di una sfilata). Eppure la 2.55 si è trasformata in un classico, i cui giorni non si contano più. E’ stata appesa alle spalle di Kate Moss, Sofia Coppola, Phoebe Philo, Anna Wintour, segno inconfondibile di status nell’implacabile gerarchia della moda. E simbolo da sognare per chi non può permettersi il suo prezzo (la 2.55 non ha mai perso valore, qualsiasi fosse la situazione economica, e il suo primo prezzo è più di mille euro).
Entrare nella fabbrica delle borse Chanel è, per una fashion victim, l’equivalente di un giro nella fabbrica di cioccolato di Willy Wonka per un amante dei dolci. Anche se la mia guida è meno eccentrica del sinistro cioccolataio inventato da Roald Dahl. Bruno Trippe è un uomo calmo che parla con pacatezza, inusuale in un’industria nota per le primedonne. Ha il ruolo chiave di production manager, lavora alle borse Chanel da un quarto di secolo, dopo essere stato assunto a 22 anni. «Ci sono 180 passaggi nella costruzione di una borsa - spiega, mentre ci conduce verso la prima di una serie di stanze - e lavorano qui 340 persone, la maggior parte delle quali in media da 17 anni. E’ come fare un vestito di sartoria, ci vuole esperienza, 10 anni di apprendistato e noi abbiamo un modo molto particolare di lavorare che non si usa in nessun altra fabbrica».
Il punto di partenza è la pelle - molto più morbida di quella usata da altri marchi - sistemata su gli scaffali: c’è il rosa, il lilla, il nero, il rosso scarlatto, il beige... «Cerchiamo la pelle più morbida - spiega Trippe - la stessa che si usa in sartoria». Dopo di che mi porta nei sei atelier attraverso cui passa ogni borsa. Ogni passaggio è fatto a mano, ogni addetto ha il grembiule bianco e la proverbiale cortesia francese e ognuno lavora in modo attento, maneggiando strumenti precisissimi e con un profondo orgoglio. «Tutti partecipano a turno a ogni fase del processo - spiega Trippe -. Conoscono ogni elemento della 2.55 e dei 60 pezzi che servono per assemblare la borsa. Abbiamo bisogno di tre pelli per una borsa, perché usiamo solo la pelle più morbida, ma c’è anche un modo di lavorarla perché sia resistente: l’imbottitura è un segreto, così come il modo in cui si rivolta la borsa per cucirla. E naturalmente la fodera deve essere perfetta, Mademoiselle Chanel su questo era esigentissima, l’interno deve essere bello come l’esterno».
Il valore della pelle

Non ha bisogno di ripetere il nome di Mademoiselle: la sua presenza è evidente in tutta la fabbrica e aleggia sopra ogni borsa che porta il suo marchio. E sebbene sia stata creata in origine per assecondare il desiderio di Chanel di maggior praticità («Ero stufa di tenere il portamonete nelle mani e perderlo - diceva lei - così ci ho aggiunto una catena e l’ho portato a spalle») ha una sua mistica. Questo in parte per la storia e l’iconografia di Chanel: la pelle matelassé è un simbolo del suo amore per l’equitazione quando era giovane (i materiali trapuntati un tempo erano indossati dai ragazzi di stalla), così come la tradizionale catena di metallo dorato intrecciata con una corda di pelle somiglia alle briglie di un cavallo e anche forse ai paramenti portati dalle suore cattoliche che avevano educato la piccola Coco («L’ultimo passaggio è aggiungere la catena - dice con la reverenza religiosa che contraddistingue le voci di tutti quelli che lavorano qui - è un passaggio molto delicato, se lo sbagli, hai rovinato la borsa»). Ma forse la cosa più significativa sono gli scomparti interni della 2.55 - c’è una tasca segreta per nascondere lettere d’amore o denaro; tre compartimenti più discreti, incluso uno per il rossetto (senza il quale Chanel non si faceva mai vedere). Poi c’è il logo con la doppia C - il codice magico, ancora - e un altro logo sulla chiusura disegnato dopo la morte nel 1971, conosciuto come Fermaglio Mademoiselle.
Ci sono vassoi di questi potenti loghi nell’ultima stanza e altri sulle famose scatole nere, in cui ogni borsa verrà amorevolmente messa, dopo essere avvolta in carta da tessuto bianca. Dentro, in uno dei compartimenti segreti, c’è un numero di serie individuale che prova l’autenticità della borsa e non un’abile imitazione. Ciò significa che un cliente, se volesse, potrebbe scoprire chi nella fabbrica ha fatto la sua borsa, rinforzando il manifesto di Chanel «fatto a mano in Francia»: molto appropriato per un oggetto che è allo stesso tempo incarnazione di un desiderio di individualità e del potere di un marchio globale. Alla fine è questo a essere tanto importante per la 2.55 quanto i 180 passaggi della sua manifattura: l’alchimia che trasforma l’onnipresenza dell’uniforme in qualcosa di perfettamente unico.

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