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 2009  marzo 30 Lunedì calendario

ITALIANO, SUL RING DI ALI CON UN PUGNO DI DOLLARI


Investire una vita su una sola parola, un nome: Gleason’s. La palestra dei miti, la più vecchia di New York, quella che si porta dietro 131 titoli Mondiali e il triplo dei sogni. Quella dove si allenavano Jack La Motta, Rocky Graziano, Muhammad Ali, Joe Frazier, Emile Griffith, Roberto Duran, Mike Tyson, Arturo Gatti, chiunque abbia avuto una storia da ring è passato di qui e chiunque se ne voglia costruire una, sale al primo piano del numero 77 di Front Street. Brooklyn, quartiere Dumbo (Down Under the Manhattan Bridge Overpass) cioè giusto sotto il ponte che si vede dai finestroni della palestra.
Di fronte c’è un centro fitness che si chiama Guru, insegna con grafica design, in arancio di tendenza, ma dall’altra parte del pianerottolo il mondo si è fermato ai tempi in cui la ginnastica modaiola non esisteva. Ci sono i muri rossi, le foto di chi ha deciso il pugilato, gli attrezzi sparsi, quattro ring, i bidoni blu in cui sputare e gente che suda dalle sei del mattino, quando la Gleason’s apre, alle undici di sera e oltre l’orario di chiusura ufficiale. il motivo per cui Floriano Pagliara, peso leggero di Cecina, ha puntato l’esistenza su questo stanzone vecchio stile.
L’ha visitato per la prima volta durante una vacanza di capodanno, un mese omaggio, regalo della fidanzata e l’intuizione che «tra queste mura il mio sport fosse altro da quello che conoscevo». Ci è tornato dopo una batosta, «un ko che faceva male, subìto in casa, a Livorno. Una sconfitta cattiva. In tanti mi hanno detto: Floriano mettiti ad allenare e io ho capito che dovevo cambiare aria. Ho pensato: vado alla Gleason’s per un altro mese e cerco di capire se a trent’anni posso ancora farcela». Era il giugno del 2008, il mese è scaduto e anche il biglietto di ritorno, «che ancora guardo ogni tanto per confrontarmi con quel salto nel buio. Farne un altro sarebbe costato 800 dollari che non avrei saputo dove trovare e io non conoscevo una parola di inglese, non avevo casa, né idea di come campare. La palestra costa 85 dollari al mese, più l’allenatore che parte da un centinaio di dollari base e sale a seconda del prestigio».
Si è messo a sparecchiare tavole e a tirare pugni, ha trovato casa a Bay Bridge, lo stesso quartiere dove ballava Tony Manero nella «Febbre del sabato sera», strade di italiani immigrati tanto tempo fa, non ne restano più tanti perché oggi gli asiatici li stanno sostituendo, ma ancora si festeggia la festa di Santa Rosalia. Per arrivare alla Gleason’s, nella Brooklyn che conta, ci vogliono 40 minuti. Pagliara inizia con la corsa alle sei del mattino: «Quando mi alzavo a quell’ora a Livorno vedevo i portuali che mi guardavano come fossi pazzo. La mosca bianca. Qui sono uno dei tanti che insegue il suo sogno». Gli italiani alla Gleason’s sono dieci, come racconta il boss Bruce Silverglade, detto Silv, che scorre il suo computer e scandisce «Italy» ogni volta che rimbalza su un nome nostrano, ma «L’italiano» è uno solo. Floriano Pagliara, l’unico professionista che si allena qui.
«Stava per scadermi il visto, mancava un giorno e io mi chiedevo: ma che stai facendo? Se resti qui come abusivo e ti beccano non potrai più tornare in America. Me lo ripetevo senza decidermi a niente. Quello stesso pomeriggio vado alla Gleason’s e faccio da sparring partner per uno del gruppo di Damon, il manager di Rafael Conception e quello mi dice: ci vuoi venire a combattere a Città del Messico? Hai mezz’ora per pensarci». Non l’ha usata, ha detto sì e ha avuto permessi nuovi con cui restare altri sei mesi, ha combattuto e vinto, nel sottoclou per un titolo mondiale, serata di gala, e quando l’arbitro gli ha alzato la mano, lo speaker ha urlato: «L’italiano». diventato il suo soprannome: «Ne sono fiero, dichiara le mie origini e, almeno intorno al ring, gli italiani piacciono a New York. Ci sono tre posti che contano al mondo per la boxe: Las Vegas, il Madison Square Garden e Città del Messico. Io sono rinato lì».
Oggi si prepara con Pedro Saiz, un domenicano che ha tirato fuori 22 campioni del mondo ed è stato lo sparring partner di Oscar De La Hoya, e aspetta l’incontro buono: «Non sono giovanissimo, ma questo è il momento giusto. Io voglio diventare campione del mondo. Lo so, fa ridere dirlo ma so che ce la posso fare e poi... ero finito, a tappeto, e ora ho un nome nuovo, mi alleno nel centro del mio mondo, credono in me. Qui è pieno di neri dal fisico pazzesco e dal pugno bestiale, ma tanti non hanno testa, si perdono. Io sfrutto tutto quello che si può, non manco un giorno, respiro boxe. Lo sapete che alla Gleason’s i trainer si sfidano a scacchi tra un incontro e l’altro? Abbiamo 1000 professionisti in tutta Italia, qui ce ne sono più di 900 tra quattro mura». Ha un visto B1 che scade a fine maggio, è estendibile ma pur sempre provvisorio, non può fatturare fino a che non diventa cittadino americano: «Così faccio le capriole». Tipo sacrificarsi come sparring per qualche ex campione quando arrivano i pullman di turisti alla Gleason’s (10 dollari d’ingresso per i visitatori), o sciropparsi sei ore di treno per andare a Rochester ed entrare nel gruppo di allenamento di un pugile pronto a un grande combattimento, per 80 dollari al giorno. Più qualche ora da personal trainer, niente che lo possa mettere nei guai con il fisco, quel che basta a pagare i mensili della palestra e l’affitto a Bay Bridge.
Intorno a lui una comunità di italiani, i dieci identificati dal boss, molti sono pendolari come Andrea Galbiati che si fa qualche mesata alla Gleason’s e porta con sé i migliori della sua palestra milanese, altri hanno trovato il loro pezzo d’America. Alessandro Gargani che voleva tirare pugni e si è scoperto chef, oggi è il cuoco del «Mezzogiorno», «ristorante con cucina fiorentina» a Spring street, nel bel mezzo di Soho. Frequenta ancora la Gleason’s e come lui un cardiologo italiano, ormai famoso a New York e un vecchio pugile, Dom: «Lui sta qui da una vita, è la bibbia. Ripete cento volte gli stessi racconti però poi ti dà una mano quando arrivi. il traduttore ufficiale per noi italiani, per me soprattutto». Anche se ormai Pagliara l’inglese lo parla e chiede «regular coffee» alla tavola calda davanti alla palestra. Si è dato un tempo limite? «Tempo? Qui ho imparato che non esiste. Rischiavo di essere rimpatriato ed è arrivato l’incontro a Città del Messico, oggi non aspetto la data del prossimo match: mi preparo per quando arriverà».