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 2009  marzo 30 Lunedì calendario

LA CRISI E IL PRINCIPIO DEL GATTOPARDO


I dilemmi della vita sono più semplici dei trilemmi. Scegliere tra due opzioni può essere difficile, ma scegliere fra tre è pressoché impossibile.
Il «trilemma» di cui parlo è economico. Sancisce che un Paese può disporre di due dei seguenti fattori, ma non di tre: apertura al flusso del capitale internazionale; tasso di cambio fisso; e una politica monetaria nazionale indipendente. I Tory se ne resero conto a loro spese nel 1992, quando il governo Major tentò di combinare assieme tutti e tre questi elementi, ma senza esito. Agganciare il tasso di cambio della sterlina con il marco tedesco in un momento in cui l’economia britannica era in recessione e i prezzi immobiliari in caduta libera, mentre i manager degli hedge fund, come George Soros, avevano le mani completamente libere per ricorrere al leverage
contro la Banca d’Inghilterra, non rappresentò una mossa politica saggia, né tanto meno sostenibile.
Per molti Tory, l’uscita del Regno Unito dal sistema monetario di cambio dello SME fu una rivincita dei loro principi a sostegno del libero mercato. Nelle celebri parole di Margaret Thatcher, non si può «piegare il mercato». Ma all’epoca non si era compresa appieno la magnitudine della sfida che la globalizzazione finanziaria lanciava ai conservatori.
Già nel 1992, la Banca dei Regolamenti Internazionali stimava il giro d’affari giornaliero, nei mercati di cambio mondiali, a più di un trilione di dollari. All’epoca, le riserve internazionali combinate delle banche centrali di Gran Bretagna, Francia e Italia erano inferiori a 150 miliardi di dollari. Soros, da solo, fu in grado di scommettere 10 miliardi di dollari sulla svalutazione della sterlina. Man mano che altri speculatori seguivano le sue orme, la semplice aritmetica faceva capire che la Banca d’Inghilterra sarebbe stata travolta, per quanto alti mantenesse i suoi tassi d’interesse.
Nei 15 anni intercorsi tra la disfatta del sistema monetario di cambio e l’inizio della crisi finanziaria globale nell’estate del 2007, lo squilibrio tra i mercati finanziari e i governi è cresciuto a ritmo esponenziale. Nel 2006 la stima della produzione economica dell’intero pianeta si aggirava sui 48,6 trilioni di dollari. La capitalizzazione di mercato totale delle borse mondiali era di 50,6 trilioni di dollari, superiore di un 4 per cento. Il valore complessivo dei titoli interni e internazionali era di 67,9 trilioni di dollari, superiore del 40 per cento. Ogni giorno, 3,1 trilioni di dollari cambiavano di mano nei mercati di cambio mondiali, il triplo del volume raggiunto nel 1992.
Ad alimentare questa tremenda crescita dei mercati finanziari c’era la quadruplice liberalizzazione dei mercati internazionali: per i beni, i servizi, il capitale e il lavoro. Non era un quadro esclusivo al mondo anglosassone: la globalizzazione, come suggerisce il nome, è dappertutto. Ma per la destra anglofona è stata foriera di conseguenze particolari. Passati inosservati dai conservatori britannici, americani e perfino australiani, questi grandi sconvolgimenti hanno creato un nuovo e ben più grave trilemma.
Supponiamo che un governo possa disporre di due di questi fattori, ma non di tutti e tre insieme: la globalizzazione, vale a dire l’apertura al flusso internazionale di beni, servizi, capitale e lavoro; la stabilità sociale; e uno stato piccolo. Ovvero, per dirla in altre parole, i conservatori possono scegliere due voci tra: economia aperta, società stabile e potere politico – ma non tutte e tre.
Come mai? La globalizzazione, si viene a scoprire, determina un sistema economico altamente efficiente in gran parte dei casi, perché le risorse sono distribuite nel modo migliore grazie agli effetti della divisione del lavoro e dei vantaggi comparati. Ma è anche soggetta a crisi: crisi minori ogni decennio all’incirca, crisi maggiori ogni cinquant’anni.
L’effetto della globalizzazione appare pertanto a doppio taglio. La volatilità economica viene a lungo contenuta dall’integrazione internazionale. Tuttavia, i recenti avvenimenti mostrano che la volatilità su vasta scala non è sparita del tutto – e non è mai scomparsa su scala ridotta, per il singolo cittadino o azienda – anzi, la globalizzazione sembra averla accentuata. Nel breve raggio, dobbiamo rassegnarci a vivere con mutamenti sempre più grandi e frequenti nell’impiego e nel reddito; nel lungo raggio, con la probabilità che ci toccherà subire come minimo una crisi globale davvero imponente.
Non è affatto una coincidenza, né un’assurdità, che la presente crisi sia percepita da molti della sinistra – non da ultimo dal capo dell’ufficio della Casa Bianca del democratico più a sinistra mai eletto alla presidenza degli Stati Uniti – come un’ottima occasione, da non lasciarsi scappare. Costoro si propongono di rispolverare la Teoria Generale di John Maynard Keynes, che suggerisce come il calo nei consumi privati e negli investimenti possa e debba essere compensato da un aumento della spesa pubblica, finanziata dal prestito.
Il fatto che tali famosi rimedi adottati per l’ultima Grande Depressione abbiano, alla lunga, fatto precipitare l’Occidente nel caos, che alcuni di noi ancora ricordano dagli anni Settanta, non sembra aver alcun peso. Come stanno scoprendo i conservatori nel mondo anglofono, gli argomenti che si sono rivelati così efficaci negli anni Ottanta, oggi sembrano vani. Occorre denunciare l’irresponsabilità di deficit così mastodontici? O continuare a proporre tagli fiscali? E’ difficile fare l’una e l’altra cosa contemporaneamente. Il recente passo falso di Ken Clarke sull’abolizione della tassa di successione per i patrimoni dal valore inferiore al milione di sterline illustra il problema: è questo l’«obiettivo » dei conservatori? O un «impegno»? Oppure la domanda è irrilevante?
Nel tentativo di accalappiare i tre fattori, i conservatori finiscono con l’essere accusati dello scompiglio sociale che la globalizzazione si porta dietro, in particolare la perdita dei posti di lavoro causata dalla delocalizzazione, la fuga dei capitali all’estero e l’immigrazione. Solo la sinistra sembra avere una risposta credibile: la globalizzazione, più la stabilità sociale, più un governo forte e interventista.
Esiste qualche possibilità che i conservatori risolvano il trilemma senza abbandonare né l’adesione al libero mercato, né l’impegno per l’ordine sociale, né l’obiettivo di uno stato piccolo?
Io credo di sì, ma occorrerà ridefinire ciascuno di questi elementi. I conservatori devono riconoscere non solo l’intrinseca vulnerabilità dell’economia globale liberalizzata, ma anche le continue distorsioni imposte dai governi ai mercati mondiali, che ne hanno aggravato la vulnerabilità. Inoltre, non si capisce perché la stabilità sociale debba essere considerata sacrosanta: è bene, anzi, che i conservatori siano pronti ad abbracciare i cambiamenti sociali in virtù di quello che potremmo definire il «principio del gattopardo», dall’aforisma del celebre romanzo di Tomasi di Lampedusa: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi! » Infine, ai conservatori spetta sostenere l’idea che uno «Stato intelligente» può regolare più efficacemente l’interazione tra globalizzazione e mutamenti sociali senza dover ripiegare sul modello socialista keynesiano della pianificazione economica.
Pertanto, la prima parte della soluzione conservatrice all’attuale crisi consiste nel riaffermare la nostra fede nella visione di Adam Smith, e cioè che la ricchezza delle nazioni si accresce grazie al libero scambio, e puntando il dito contro le innumerevoli distorsioni governative che ostacolano ancora oggi l’avanzare della globalizzazione.
La seconda parte mette al bando le preoccupazioni e ci invita a goderci i cambiamenti della società. Nessuno vuole l’instabilità, certo, ma neppure la stasi. Il segreto sta nel distinguere tra una società ordinata, in cui criminalità e altre forme di disordine sono mantenute al minimo, e una società rigida, nella quale l’ordine si ottiene a spese della mobilità sociale. La differenza fondamentale tra i conservatori e i loro oppositori non dev’essere (come vorrebbe la sinistra) che i conservatori sono a favore della diseguaglianza, mentre la sinistra appoggia l’eguaglianza. La differenza sta nel fatto che i conservatori spingono verso la mobilità sociale e sono convinti che alcune misure adottate per promuovere l’eguaglianza – in particolare la redistribuzione della ricchezza su vasta scala – rischiano, involontariamente, di ridurre la mobilità.
La terza parte della mia soluzione incita a riflettere più intensamente sul funzionamento dello Stato. Uno degli aspetti più inquietanti dei conservatori britannici negli ultimi anni è stata l’arrendevolezza dei leader del partito, che hanno consentito al governo laburista di appropriarsi dell’autorità morale sulla questione della spesa pubblica e, fino a un certo punto, sulla fiscalità.
Emancipati dalla crisi finanziaria, i governi della sinistra su entrambi i lati dell’Atlantico oggi assistono a un balzo vertiginoso della spesa pubblica, del debito pubblico e del pubblico impiego, i cui benefici a breve termine sono senz’altro esagerati, e i cui costi a medio termine sono quasi certamente sottostimati.
Eppure fino ad oggi i conservatori non hanno saputo articolare una risposta coerente. E’ ora che ci provino, lasciandosi alle spalle i corni del trilemma.