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 2009  marzo 29 Domenica calendario

TORINO E L’OMBRA DI FRITZL. «VENERATO DALLE SUE VITTIME»


«Tanto lo sapete che se sparano a uno mica scendi a vedere che succede. Qui ci facciamo i fatti nostri, non diciamo niente a nessuno».
Il fotografo della questura guardò distrattamente all’uomo che stava parlando con gli agenti impegnati a fare i rilievi per un pregiudicato gambizzato davanti al portone di casa. Non valeva un clic, quel signore in pantofole, l’aria dimessa, i capelli radi, l’espressione fissa. Adesso, forse, ci sarebbe qualcuno disposto a pagare per quel mancato scatto, così sostengono alcuni agenti del commissariato locale, che spesso sul marciapiede di via delle Querce incrociavano quel passante dall’andatura incerta, che viveva nel palazzo accanto a quello del malavitoso ferito lo scorso maggio. Potrebbe, poteva essere lui, il Fritzl italiano.
Lo hanno definito così al momento del-l’arresto, e buona la prima. Questo padre snaturato e sciagurato della periferia torinese, 61 anni portati male, diabetico e zoppo da una gamba, sta facendo il giro del mondo. La versione nostrana del diavolo di Amtstetten, l’uomo che per 24 anni ha tenuto nascosto in cantina il più osceno dei segreti. Una figlia ridotta in schiavitù, segregata, violentata, abusata, plagiata. «Italy’s Fritzl», titola The Independent,
«Police arrests Italy’s Fritzl» è la minima variazione sul tema del Times,
che sembra sottolineare la maggiore infamia della vicenda più recente aggiungendo che il padre di Torino avrebbe anche insegnato al suo primogenito, quarant’anni e quattro figlie, i rudimenti dello stupro.
Le similitudini sono evidenti, ma ci sono anche notevoli differenze. Non risiedono solo nel fatto che le vittime non fossero fisicamente prigioniere e nel beneficio del dubbio che va esercitato per una inchiesta più complessa di quel che sembra, condotta da un magistrato, Pietro Forno, esperto di indagini su violenze sessuali e pedofilia ma protagonista nei suoi anni milanesi di alcuni errori giudiziari che discendevano da una valutazione acritica delle denunce. «Ma quale Austria. Questa è una storia di soggezione psicologica creata da un malinteso senso della famiglia» sostiene Iolanda Seri, il vicequestore che ha condotto le indagini. «Le paure dei figli, se c’erano, erano cristallizzate intorno ad un papà venerato come un idolo». Premesso che «non ci sono prove» e che lui si dichiara innocente, anche l’avvocato Antonio Genovese, difensore del padre, non concorda con chi paragona il suo assistito a Fritzl. «Il contesto è molto diverso. Qui siamo di fronte solo ad un innegabile degrado sociale».
L’elettrotecnico Josef Fritzl era un moderno impiegato dell’orrore, diligente e puntuale, tecnologico sia nel telecomando a infrarossi con timer per sigillare il suo bunker che nel barbecue elettrico in mezzo al giardino con il quale propagava la sua fama di «marito e nonno affezionato ai bambini ». Al passo con i tempi, ben integrato in un paese di poche anime, uguale a tutti nella sua villetta linda, ma consapevole di custodire un segreto orrendo. Il padre di Torino non dissimulava nulla di una esistenza ai margini. Le difficoltà della sua famiglia erano ben conosciute ai vicini, agli assistenti sociali, alla parrocchia locale. In dieci a sovraffollare una casa comunque decorosa, piena di crocifissi e santini. Il commercio del rame e dei rottami come unica attività conosciuta. Traffici strani, redditi misteriosi. Una figlia epilettica che dorme sulle panchine del Parco Stura. Un’altra, l’unica accusatrice, che secondo il consulente della Procura è afflitta da «deficit cognitivo di tipo moderato», e vive «in uno stato di depressione cronica con disturbo di personalità dipendente». Il primogenito, arrestato con il padre, già segnalato più volte per reati di varia natura.
Il presunto Fritzl nostrano è un residuo del passato che vive al primo piano di un condominio affollato, con le pareti che sembrano carta velina, in un quartiere popoloso. rimasto fermo al suo arrivo alla Falchera. Metà degli anni Settanta, quando la zona alla periferia Nord di Torino divenne l’attracco dell’ultima immigrazione del Sud. Quella durissima, che non si era inserita nemmeno nei luoghi di provenienza. Lui veniva dal Cep di Foggia, altri da quello di Palermo o dalle nuove periferie di Catania e Reggio Calabria. In quel tempo, e fino alla metà degli anni Ottanta, le maestre di scuola tornavano a casa piangendo dopo aver scoperto qualche loro alunna vittima di un padre bestia. Adesso non è più così. Il quartiere non sarà Beverly Hills ma negli anni ha cambiato pelle e anima.
Quel che rivela l’inchiesta non è uno spaccato sociale ma piuttosto l’esistenza di una famiglia costruita intorno a rapporti che lo stesso avvocato difensore definisce come «uno stato di soggezione alla tradizione tribale », nella quale il padre è un padrone venerato e sottoposto ad un culto acritico, tatuato sulla pelle dei figli e nella carne viva delle figlie. Donne, e in quanto tali «considerate oggetti inanimati, senza vita propria». Abusate, maltrattate. Insultate. «Puttane, venite qua», così si esprimono padre e primogenito. Le intercettazioni, impubblicabili, rivelano un gruppo chiuso, omertoso («i fatti nostri») che vive un inferno inconsapevole, dove lo stato di promiscuità non viene sentito come una anomalia, e il padre può far dormire la primogenita su una brandina ai bordi del letto matrimoniale, per averla a disposizione. L’intera famiglia lo difende strenuamente, e «scarica» il fratello maggiore, raccontando agli investigatori che è lui l’unico stupratore. Ma senza avere mai sentito, in questi anni, il bisogno di denunciarlo.
Se davvero le accuse troveranno riscontro, è questa la differenza, l’atroce peculiarità italiana. In questo allucinato stupore per le accuse. In comportamenti mostruosi che invece erano considerati normali, e come tali condivisi. Il padre padrone è «solo» accusato dalla testimonianza della figlia. Contro il primogenito c’è anche una intercettazione ambientale. Lui richiede una prestazione sessuale alla figlia di 12 anni chiamandola con epiteti irriferibili, e la sua voce si sovrappone a quella della bimba più piccola, anche lei oggetto di pratiche da voltastomaco, che non riesce ad uscire dal passeggino. Sullo sfondo, il trambusto di una casa affollata. Nessuno urla, nessuno si mette a piangere. Ordinaria routine familiare. Correte in cucina, che è pronta la cena.
Marco Imarisio