Note: [1] Ugo Magri, La Stampa 28/3; Barbara Fiammeri, Il Sole- 24 Ore 28/3; [2] Roberto D’Alimonte, Il Sole-24 Ore 28/3; [3] Luca Ricolfi, La Stampa 28/3/2009; [4] Giovanni Sabbatucci, Il Messaggero 27/3; [5] Massimo Franco, Corriere della Sera 28/3; [6], 28 marzo 2009
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 30 MARZO 2009
Forza Italia e Alleanza nazionale non ci sono più e al loro posto esiste da venerdì un unico partito della destra, il Popolo della Libertà, che «punta al 51%» e secondo «i sondaggi veri» del premier è già al 43,2. [1] Roberto D’Alimonte: «Le grandi democrazie hanno bisogno per funzionare bene di grandi partiti. così in Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna. Adesso lo è anche da noi. Il Pdl è il primo partito italiano e uno dei più grandi partiti di destra in Europa. Nelle elezioni del 2008 ha ottenuto alla Camera il 37,4% dei voti e 276 seggi. In Europa in tempi recenti solo il Partito popolare in Spagna nel 2008 (39,9%) e l’Ump di Sarkozy in Francia nel 2007 (39,5%) hanno fatto meglio». [2]
In questi giorni, la definizione del nuovo partito più ascoltata è stata ”casa dei moderati”. Luca Ricolfi: «Un’etichetta impensabile quindici anni fa, quando Forza Italia sembrava promettere una rivoluzione liberale (un impegno ritualmente evocato da Berlusconi anche venerdì, ma reso poco credibile dalle promesse mancate del 2001-2006, per non parlare delle pulsioni stataliste di oggi)». [3] Il PdL è molto diverso dalla prima Forza Italia, e non solo per la confluenza con An. Giovanni Sabbatucci: «L’originaria componente liberal-liberista, che dava il tono alla creatura berlusconiana, anche se non ne esauriva certo le articolazioni, è via via passata in secondo piano assieme a una parte non trascurabile del nucleo dirigente storico». [4]
Negli anni sono emerse in Fi nuove componenti. Sabbatucci: « emersa soprattutto una nuova sensibilità ”sociale”, una vocazione inclusiva che ha la sua espressione più autorevole nel ministro dell’Economia Tremonti e nella sua polemica ”antimercatista”. Un orientamento che, lo si condivida o meno, la stessa crisi economica mondiale ha contribuito a rendere plausibile agli occhi di una parte dell’opinione pubblica, e in qualche misura imprescindibile per una forza politica a vocazione maggioritaria. Così reimpostato, il nuovo partito rischia (o promette) di somigliare non poco alla Dc degli anni d’oro». [4] Massimo Franco: «Sembra un nuovo partito-Stato, erede elettorale della Dc; ma così tagliato su misura del leader da rappresentarne la metamorfosi moderata. Di più: la sua antitesi culturale, prima ancora che politica». [5]
Nonostante le grandi differenze, il PdL è l’erede della Dc quanto meno come percentuale di consensi complessivi e in parte come radicamento territoriale. D’Alimonte: «Da questo punto di vista la differenza maggiore rispetto alla Dc è rappresentata dal Nord-est dove la ”Balena bianca” era il partito predominante ma dove il PdL deve fare i conti con la Lega. Al Sud invece, soprattutto dopo le elezioni del 2008, si può tranquillamente affermare che il PdL occupa la posizione che è stata della Dc. E della Dc il partito di Berlusconi condivide anche un’altra caratteristica rilevante che ne conferma il carattere di partito nazionale: l’interclassismo». [2]
A qualcuno il paragone PdL-Dc non piace. Ignazio La Russa: «Non siamo la Dc delle correnti, delle congiure, delle crisi di governo. Quella proprio no. Ma se, invece, qualcuno accosta il partito del Popolo delle Libertà alla Dc degli albori, quella di Don Sturzo, di De Gasperi, quella che si identificò con lo Stato, anzi lo ha costruito, il paragone va benissimo anche a me». Augusto Minzolini: «Il paragone più vicino è il rapporto stretto con il governo, con lo Stato. Berlusconi forgia il PdL sulla sua esperienza di governo. Allora De Gasperi lo fece per far risalire l’Italia in ginocchio del dopoguerra. Berlusconi ci prova ora per superare la più grave crisi economica globale degli ultimi venti anni». [6]
In questo schema, oggi come allora, c’è un’identità totale tra partito e governo. Minzolini: «Tra partito e un nuovo Stato che nella testa del Cavaliere va costruito, se è necessario cambiando anche la Costituzione con il consenso del popolo (altro termine fondamentale nel vocabolario democristiano)». [6] Ezio Mauro: «Non è infatti al Paese che guarda Berlusconi, ma al ”popolo”, vero soggetto politico del nuovo movimento, strumento di consacrazione quotidiana del carisma egemone, che nel popolo più che nelle istituzioni cerca la sua forza e la sua legittimazione. Anche il concetto di libertà è giocato in questa chiave, con una diffidente separazione-contrapposizione tra il cittadino e lo Stato, come se la politica - adesso che Berlusconi ha compiuto la sua rivoluzione ”liberale, borghese, popolare, moderata e interclassista” - si riassumesse nella delega al Principe». [7]
L’egemonia berlusconiana nell’Italia di oggi può essere paragonata a quella esercitata da Giovanni Giolitti nei primi anni del ”900, fino allo scoppio della Grande Guerra. Stefano Folli: «Le differenze sono evidenti e clamorose, anche perché il sistema politico era del tutto diverso, ma c’è un’analogia: come il suo lontano predecessore, anche Berlusconi fonda il potere sulle proprie capacità personali, nonché sulla propria influenza su uomini e situazioni. Più che a una forza organizzata, egli si affida al carisma. Un fattore che ha creato intorno a lui amori appassionati e odii perenni, dividendo il Paese come mai dall’avvento della Repubblica». [8]
Nei passaggi decisivi che hanno scandito i quindici anni della sua ”discesa in campo”, il carisma del Cavaliere ha fatto la differenza. Carlo Fusi: «Questo perchè come nessun altro leader politico della storia recente italiana, Berlusconi ha saputo e sa interpretare i bisogni dell’Italia profonda, mettersi cioè in sintonia con la parte maggioritaria del Paese. Per alcuni si tratta di populismo, ma in realtà l’azione di Berlusconi sia al governo che all’opposizione, ha saputo rappresentare e dare voce - anche dal fondamentale punto di vista della comunicazione - alle speranze e ai desideri del blocco sociale che via via si è formato attorno a lui. Per questo il consenso di cui gode ha avuto ed ha carattere duraturo». [9]
Tutti i partiti puntano all’economia sociale di mercato distinguendosi solo per le dosi delle due componenti. Paolo Savona: «L’andamento dei consensi testimonia che i modi in cui Berlusconi pone il problema è quello vincente presso gli elettori. Se questo modo è sintetizzabile, come lui ha fatto, nell’elogio della libertà, ma nella supremazia del popolo, la conclusione è che dovremmo chiedere a esso di scegliere se vuole un mercato che veramente funzioni o una maggiore protezione sociale. I sospetti sono che la maggioranza del popolo propenda verso la soddisfazione della seconda istanza; se così fosse, l’abilità politica di Berlusconi consiste nel convincere gli elettori che egli è in condizione di rispondere meglio alle attese, la qualcosa non sembra riuscire all’opposizione, che avrebbe invece, almeno in teoria, maggiore credito nel soddisfare l’istanza». [10]
Un’interpretazione alternativa potrebbe essere che il popolo abbia la sensazione di fondo di non dover abbandonare un assetto di mercato, se vuole veramente avere una rete di protezione sociale. Savona: «E che, anche per questa istanza, Berlusconi offra maggiori garanzie. Se così fosse e la sinistra volesse guadagnare consensi, dovrebbe apportare una profonda modifica alla cultura della sua stessa maggioranza, per la quale il mercato libero è tuttora oggetto di accettazione superficiale che poggia su una struttura portante di tipo sociale dove il ricco è un parassita da confinare in uno dei tanti gironi danteschi dell’Inferno e al povero spetta comunque una fetta del benessere altrui e, nel peggiore (o migliore) dei casi, il Regno dei cieli». [10]
Per ora il futuro del PdL coincide con un atto di fede verso il suo leader. Folli: «Berlusconi investe su se stesso, sul suo carisma: oggi come quindici anni fa. Forse addirittura più oggi di allora, perché nel frattempo l’uomo ha imparato le tecniche della politica: non è più solo un comunicatore, è anche un personaggio in grado di gestire le alleanze meglio di quanto abbia mai saputo fare in passato». [11] La nascita del PdL non è però la solita fusione fra due partiti che, pur avendo percorso strade diverse, appartengono a una stessa specie. Sergio Romano: «Fi e An sono animali diversi. Il primo è un partito padronale in cui il cemento ideologico è sostituito dalla personalità del fondatore. Non è più il partito-azienda che Berlusconi ha creato nel 1994, ma è pur sempre un partito del leader, dominato dallo stile delle sue grandi iniziative imprenditoriali». [12]
Negli anni Fi ha cessato di essere il mero prolungamento politico di un’azienda, ma non è diventata un ”partito delle tessere” e delle correnti, come i partiti italiani degli ultimi 65 anni. An era invece un classico partito del Novecento con un’ideologia che si è progressivamente appannata grazie alla strategia di Gianfranco Fini, ma sopravvive come sentimento nostalgico di un passato inutilizzabile e tuttavia ancora presente nelle viscere degli aderenti. Ha tesserati, militanti, sezioni, correnti, liturgie, ”colonnelli”. Romano: «Ha cambiato pelle sotto la spinta degli avvenimenti e ha dimostrato di potere essere una forza di governo. Ha un leader, Fini, di cui il Paese riconosce le qualità. Ma è per molti aspetti l’opposto di Fi. Rinuncerà a se stesso per identificarsi con il partito nuovo?». [12]
Berlusconi e Fini hanno una diversa visione del ruolo delle istituzioni, del governo e della politica di cui dovrà farsi portatore il PdL. Claudia Terracina: «Berlusconi che, una volta, di più, ripete che ”servono tempi di reazione rapidi di fronte ai tempi lunghi delle istituzioni, perchè l’autorità del governo deve trovare in tempi brevi risposte nelle istituzioni”. E assicura di ”rispettare la Costituzione, in essa ci riconosciamo. Sentiamo il patriottismo della Costituzione, ma non fine a se stesso”, spiega. Fini, che invece insiste sul ruolo insostituibile del Parlamento e sulla difesa di questa Carta costituzionale, che ha dato regole e comportamenti all’Italia uscita dalla guerra, e, al momento, è sempre valida e va rispettata in ogni sua articolazione». [13]
Il 18% degli elettori del PdL vorrebbe Fini leader del nuovo partito e il 24% lo indica, comunque, come seconda scelta. Ilvo Diamanti: «Difficile, per questo, pensare a un partito monocefalo. Anche perché le differenze di visione fra gli elettorati dei due 2 ”soci fondatori” appaiono ancora visibili. Fra gli ex elettori di Am, infatti, la quota dei sostenitori di Fini alla guida del PdL sale a un terzo; alla pari con Berlusconi. Inoltre, il 35% di essi preferirebbe tornare indietro. An e Fi: divisi e senza alcuna confusione». [14] Romano: «Molto dipende dalle verifiche elettorali. Nulla convince quanto il successo. Ma se le elezioni non dessero un risultato superiore alla somma dei risultati raggiunti dai due partiti quando erano separati, la crisi sarebbe probabilmente inevitabile». [12]