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 2009  marzo 26 Giovedì calendario

LO STESSO MALE


Il film, naturalmente, l’aveva visto appena uscito. Ora che finalmente, pur fra mille intoppi, Katyn sta girando anche per il nostro paese, ha in agenda una serie di appuntamenti per andare a presentarlo in diverse città. Non c’è da stupirsi, dato che Victor Zaslavsky, russo trapiantato in Canada, già docente negli States a Stanford e a Berkeley, da anni stabilitosi in Italia e oggi ordinario di Sociologia della politica alla Luiss di Roma, è il maggior conoscitore italiano della vicenda di Katyn, cui dedicò un pionieristico lavoro già nel 1998, e su cui è tornato con un volume più sistematico due anni fa. L’interlocutore ideale, insomma, per proseguire il dialogo sul film di Andrzej Wajda e le vicende che lo accompagnano.

Professor Zaslavsky, le è piaciuto Katyn? Corrisponde all’immagine che lei si è fatto della vicenda?
Assolutamente. un film drammatico e potente, rigorosamente fedele alla verità storica. Ci sono alcune scene indimenticabili. Penso a quella di apertura, con le due folle che si incrociano sul ponte: una viene da ovest, sta fuggendo dai nazisti; l’altra da est, scappa dai sovietici. «Tornate indietro, di là ci sono i tedeschi!», gridano gli uni. «Di qua ci sono i russi!», ribattono gli altri. Un simbolo formidabile dell’alleanza fra i due regimi e della loro natura specularmente totalitaria. Oppure la scena conclusiva: le fucilazioni. Agghiacciante nel suo nudo realismo, completamente aderente ai resoconti che abbiamo dei testimoni, e anche di alcuni fra gli autori della strage.

Appunto, quella di Katyn è una vicenda ormai ampiamente accertata proprio grazie ai documenti usciti dagli archivi sovietici. E allora perché la Russia sta facendo di tutto per boicottare il film?
Perché oggi il clima politico è completamente diverso da quello che permise allora l’accesso, sia pur parziale, degli studiosi ai documenti. Agli inizi degli anni Novanta ci fu davvero un tentativo riformistico, già avviato alla fine del decennio precedente da Gorbaciov e proseguito poi da Eltsin, che arrivò in un memorabile discorso a chiedere ai polacchi: «Perdonateci, se potete». Quel percorso è proseguito ancora con gli inizi della presidenza Putin, poi si è bruscamente arrestato.

E per quali motivi si è arrestato?
Perché cambiare è sempre difficile. Qualcosa di simile era già avvenuto negli anni Settanta con Breznev. Allora era stato lo shock petrolifero seguito alla guerra del Kippur a mettere la Russia in una condizione favorevole: tra il 1973 e il ”74 il prezzo del petrolio era quadruplicato, e con i dollari che intascava con l’esportazione dell’oro nero Breznev si poteva permettere di comprare all’estero tutti i beni di prima necessità che l’Unione Sovietica non era in grado di produrre, e di metterli sul mercato a prezzi politici. Così Breznev guadagnò popolarità a buon mercato, riempiendo la pancia alla gente e rinviando le riforme del sistema produttivo, che rimase totalmente inefficiente. Lo stesso accade ora: grazie al petrolio e al gas le casse russe sono piene di dollari, e questo permette alla dirigenza russa di garantire al popolo un tenore di vita minimamente dignitoso, rinviando sine die le riforme di cui il sistema ha ancora urgente bisogno. In Russia oggi c’è un autoritarismo morbido, che stabilisce il proprio fondamento sull’esaltazione della grandezza del paese e della sua storia. Ma dove andare a trovare un momento di splendore nella storia russa? Non certo nello zarismo, né nella rivoluzione comunista. Allora il momento di gloria è la ”grande guerra patriottica”, come i russi chiamano la Seconda guerra mondiale. Chiaro che l’alleanza con Hitler diventa un ospite ingombrante, e il governo russo fa di tutto per cancellarla dalla memoria. E il massacro di Katyn di quella perversa alleanza fra i due grandi totalitarismi del Novecento è uno dei frutti più clamorosi. Che per di più, se indagato a fondo, getta una luce inquietante su tutta la politica sovietica durante la guerra.

Ma generalmente, anche tra coloro che lo ”riconoscono”, il massacro di Katyn viene considerato un ”episodio”, un evento unico, singolare.
Macché episodio. Katyn è solo la punta dell’iceberg di una politica di ”pulizia di classe” che connota tutta l’esperienza sovietica, anche negli anni della guerra. Uso consapevolmente l’espressione ”pulizia di classe”, perché è l’esatto equivalente della ”pulizia etnica” perpetrata dai nazisti: gli uni e gli altri eliminano sistematicamente quelli che le rispettive ideologie, diverse come contenuto ma assolutamente simmetriche come sistema, identificano come nemici. Katyn si comprende pienamente solo all’interno della ”pulizia di classe” metodicamente operata dai comunisti. I polacchi assassinati a Katyn non sono, nella stragrande maggioranza, militari di carriera: sono ufficiali della riserva, che nella vita civile sono dirigenti, professionisti, intellettuali. Insomma, il nerbo della classe dirigente, l’élite della Polonia del futuro. Quella che i sovietici hanno già deciso di sottomettere. A Katyn si sbarazzano in anticipo dei capi di una eventuale futura resistenza.

Ha detto che Katyn è solo la punta dell’iceberg.
Certo. Il 2 marzo del 1940 viene avanzata la proposta, firmata da Beria e dall’allora segretario del Partito comunista ucraino, Nikita Krusciov, di deportare tutti i familiari degli ufficiali: mogli, figli, genitori. Anche questo si vede nel film, quando i russi arrestano la sorella della protagonista con la bimba. A partire dal 10 febbraio dai territori della Polonia orientale occupati dall’Armata rossa erano già stati deportati circa 140 mila contadini benestanti – kulaki, secondo l’espressione russa diventata tristemente famosa. Il 29 giugno sarà poi decretata la deportazione di 70 mila rifugiati, in maggioranza ebrei scappati dai nazisti. In totale i sovietici arrestano un numero di cittadini polacchi compreso fra 450 e 500 mila. Mezzo milione di persone su una popolazione di non più di dieci milioni, la maggior parte vecchi, donne e bambini. Questa non è una politica per la difesa del paese: questa è pulizia di classe.

Si parla di deportazioni, però. Non di fucilazioni.
La deportazione equivale spesso a una condanna a morte. Lo afferma un rapporto della Nkvd, la polizia segreta: «La maggior parte di coloro che sono morti durante il trasferimento sono vecchi, invalidi, bambini. I detenuti non possiedono vestiti adeguati alle condizioni climatiche della Siberia, il cibo è insufficiente, e questo favorisce l’insorgere di numerose malattie, che falciano inevitabilmente i soggetti più deboli». Quando, dopo l’attacco tedesco alla Russia, i prigionieri polacchi saranno liberati, si calcola che, tra fucilati e morti di stenti durante la prigionia, ne manchino all’appello tra i 70 e gli 80 mila.

Una storia terribile. Perché in Occidente è così poco nota?
Le ragioni sono molte. Quando le fosse di Katyn vennero scoperte dai tedeschi, durante la guerra, l’uso propagandistico che ne fecero fu brutale. Ma Stalin allora era alleato degli occidentali, e non sembrava bello usare contro di lui gli stessi argomenti dei nazisti. Così la posizione ufficiale dei britannici fu aiutare a far sì che la storia registrasse l’’incidente” della foresta di Katyn come un futile tentativo dei tedeschi di rimandare la sconfitta attraverso metodi politici. Stendendo un memorandum in cui concludeva che il crimine era stato perpetrato dai sovietici, un diplomatico inglese, Owen O’Malley, scrisse che si trattava di un fatto «da ricordare sempre, di cui non parlare mai». Nel dopoguerra poi l’Urss divenne per gli inglesi un importante partner commerciale, perciò la linea ufficiale non fu modificata: ancora nel 1988 il Foreign Office sosteneva che non ci fossero prove a carico dei russi, e quando Gorbaciov ammise la responsabilità sovietica ebbe il coraggio di dichiarare: «Abbiamo a lungo richiesto a tutti di far luce su questo incidente. Perciò ora accogliamo positivamente le rivelazioni di Mosca». Qualcosa cambiò invece in America. Anche Roosevelt, all’inizio, aveva definito le accuse ai sovietici «nient’altro che propaganda, un complotto dei tedeschi». Poi, però, dopo la guerra di Corea, il governo americano promosse una grande inchiesta, che produsse un dossier di migliaia di pagine, che documentava inequivocabilmente i fatti. Ma erano gli anni della Guerra fredda, e chi non voleva vedere ebbe buon gioco a bollare il dossier come ”propaganda anticomunista”.

E in Italia?
In Italia la Dc agitò lo spettro di Katyn durante la campagna elettorale del 1948. Poi l’argomento cadde nel silenzio. E pensi che nella commissione della Croce rossa internazionale che per prima aveva ispezionato le fosse nel 1943 – stabilendo che le morti risalivano ad almeno tre anni prima, cioè all’epoca in cui la zona era sotto occupazione russa – c’era anche un italiano, il professor Vincenzo Palmieri, direttore dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Napoli. Un uomo universalmente stimato per la competenza professionale come per la statura umana. Ma i sovietici chiesero espressamente ai comunisti italiani di orchestrare una campagna denigratoria nei suoi confronti. Il professor Ernesto Quagliarello, futuro capo del Cnr, allora allievo di Palmieri, ricorda nelle sue memorie: «Siamo nell’aula di Medicina legale per ascoltare le lezioni del professore Vincenzo Mario Palmieri, docente di grande serietà e di profonda preparazione scientifica. All’improvviso si alza uno studente, ben noto per le sue idee socialcomuniste, che urla e minaccia il Maestro, intimandogli il silenzio perché egli, non degno dell’insegnamento, egli fascista, anzi nazista, menzognero e falsificatore della verità storica, aveva attribuito alle gloriose truppe sovietiche la strage di Katyn». In una nota del ”48 all’ambasciatore sovietico a Roma Eugenio Reale definiva Palmieri «collaborazionista e servo della propaganda di Goebbels». C’è da stupirsi che alcuni colleghi ne chiedessero addirittura l’espulsione dall’università? Del resto Giuseppe Boffa, nella sua monumentale Storia dell’Unione Sovietica, scrive che «la verità non è mai stata stabilita», non solo nell’edizione degli anni Settanta, ma anche in quella ripubblicata nel 1990, quando Gorbaciov quella verità l’aveva ammessa davanti al mondo intero.

Questo per il passato. E oggi?
Non capisco, non riesco a spiegarmi questo boicottaggio. un cattivo segno, il segno che in Italia manca ancora una sensibilità storica, culturale. So solo che nelle prossime settimane presenterò Katyn in diverse città. un film che spiega come pochi altri che cos’è stato il Novecento, che cos’è l’ideologia.