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 2009  marzo 26 Giovedì calendario

FAIR VALUE, UN PRINCIPIO SUPERCAPITALISTA FATALE AI BILANCI SOCIETARI


 opinione diffusa che le innovazioni introdotte nei bilanci aziendali dai principi contabili internazionali siano state un elemento molto rilevante nella tempesta che si è abbattuta sui mercati finanziari e sull’economia mondiale. Il dito è puntato, in particolare, sul principio del cosiddetto mark to market che impone di iscrivere alcuni asset aziendali al fair value e cioè a valori di mercato, anziché ai costi storici di acquisto. Si tratta di un opinione fondata? Il mercato pare non avere dubbi al riguardo, tant’è che l’annuncio di una possibile revisione del principio da parte del Fasb (l’accounting standard setter statunitense) è stato sufficiente per scatenare un forte rimbalzo rialzista. Per capire meglio i termini della questione è bene ripercorrere le vicende che hanno portato all’introduzione del fair value e di altri principi contabili innovativi rispetto alla tradizione, quali, per citare uno degli esempi più significativi, l’impairment test sull’avviamento.

Per tutto il XX secolo, il principio cardine per la redazione dei bilanci delle imprese era stato il costo storico. Come è noto, in base a tale principio gli assets aziendali devono essere iscritti al loro costo di acquisto o di produzione, devono essere svalutati solo nel caso in cui le perdite di valore siano «durevoli» e, salvo rare eccezioni, non possono essere rivalutati. Il criterio del costo di acquisto ha una logica ben precisa, che è quella di ancorare i bilanci a valori attendibili, di evitare l’iscrizione di utili o incrementi patrimoniali non ancora definitivamente realizzati: in poche parole, il criterio del costo storico è perfettamente coerente con il principio della prudenza, che era uno dei punti cardinali per la redazione dei bilanci soltanto fino a pochi anni fa. A partire dalla fine degli anni 70, il criterio del costo è stato criticato, soprattutto da parte degli standard setters inglesi e americani i quali si riconoscono in una tradizione contabile sicuramente meno prudente rispetto a quella italiana e, soprattutto, a quella tedesca. In particolare, si faceva notare come in tempi di elevata inflazione asset acquistati molti anni prima assumessero valori in bilancio datati e dunque poco significativi, e si iniziò a pensare all’introduzione del fair value, con il quale in pratica il costo storico viene aggiornato di anno in anno in base ai valori di mercato. Questa ipotesi venne accolta con notevoli resistenze: in particolare, si sottolineò l’elevata aleatorietà che avrebbero assunto i valori di bilancio introducendo il fair value (ogni anno si rende necessaria una stima, con tutti gli elementi di soggettività che ne conseguono) ma soprattutto le distorsioni che seguirebbero dal dovere contabilizzare utili o incrementi patrimoniali non ancora realizzati e dunque tutt’altro che certi. Ora ci si può rendere conto di quanto tali critiche fossero fondate. Il tanto bistrattato costo storico, infatti, forse non esprime in modo completamente fair il reale valore dei beni dell’attivo, ma certamente impedisce alle imprese di mostrare al mercato valori patrimoniali e utili fasulli o improbabili. Il costo storico e il principio della prudenza si ponevano una finalità purtroppo dimenticata negli ultimi dieci anni: la salvaguardia del valore del capitale d’impresa in un’ottica di medio-lungo termine. Perché allora il costo storico è stato abbandonato in favore del fair value? E perché, per fare un altro esempio, si è sostituito l’ammortamento del goodwill con l’impairment test? Il mio parere è che queste modifiche non siano state introdotte soltanto per avere bilanci più fair, ma siano invece il frutto di pressioni di lobby finalizzate a incrementare nell’ordine, utili, valori azionari, bonus, stock option. Il caso dell’impairment test è emblematico: come si ricorderà, durante la bolla della net economy molte imprese avevano effettuato acquisizioni molto onerose, nelle quali i valori patrimoniali rappresentavano una parte minimale del prezzo pagato ed il resto era goodwill. Per queste aziende, il goodwill rappresentava dunque non soltanto una parte rilevantissima degli asset ma anche, e soprattutto, un enorme carico di ammortamenti nel conto economico, che riduceva l’ebit (e dunque le aspettative del mercato, i prezzi azionari, i bonus, ecc..), sino a renderlo spesso negativo. Guarda caso, in piena bolla internet il Fas142 interviene in maniera drastica, con l’abolizione dell’ammortamento dell’avviamento e la sua sostituzione con un impairment test annuale; in questo modo, il carico del goodwill sul conto economico è stato di fatto azzerato, anche perché poche imprese effettuano impairment tali da sconfessare i valori di goodwill pagati. Ciò, ovviamente, fino a quando la situazione diverrà così grave da imporre una svalutazione che a quel punto sarà drastica e dolorosissima.

Lo Iasb si è immediatamente adeguato ai principi contabili statunitensi: una tale opportunità non poteva essere negata alle imprese quotate in altri mercati, anche per limitare le distorsioni derivanti da applicazione di criteri diversi in mercati diversi. La stessa cosa è avvenuta per il fair value: in periodi di mercati sempre crescenti, è molto comodo per le imprese potere realizzare immediatamente utili ed incrementi patrimoniali, senza attendere la vendita. dunque evidente che, in un clima di supercapitalismo (per dirla alla Robert Reich), di mercati che chiedono tutto e subito, di superstipendi legati agli utili di breve e non di lungo periodo, le pressioni per adottare questo principio siano state fortissime, irresistibili. L’errore è stato a mio avviso grave. Tramite il fair value le aziende hanno incrementato i valori degli asset sulla base di utili sperati, hanno aumentato il ricorso alla leva finanziaria giustificandolo con i maggiori valori patrimoniali evidenziati in bilancio, con i risultati che ben conosciamo. Ma vi è un altro noto effetto perverso del fair value, che l’Economist segnalò già alcuni anni fa in tempi non sospetti. chiaro che finché i mercati crescono tutto va bene, ma nel momento in cui iniziano aspettative di ribasso, le aziende che detengono assets iscritti a fair value si rendono conto che il calo dei prezzi imporrà nei bilanci immediatamente successivi svalutazioni degli assets più o meno elevate. E allora come reagiscono? Vendono i titoli subito, per anticipare il ribasso e limitare le perdite, ma in tal modo è ovvio che agiscono da moltiplicatore della spirale ribassista, introducendo nel mercato un elemento di forte distorsione. Quello che è successo è del tutto evidente. Così come è evidente l’enorme incertezza nella quale si trovano tutti coloro che oggi non sanno più attribuire alcun valore (né fair né unfair) a titoli sostanzialmente illiquidi o a goodwill iscritti in bilancio ma di dubbio valore. La realtà è che anche gli accounting standards sono stati inquinati dalla folle focalizzazione nel breve o brevissimo periodo che ha caratterizzato gli ultimi dieci anni. Se si fosse rimasti ai tanto vituperati principi della prudenza e del costo storico, avremmo oggi bilanci più fair? Difficile dirlo, ma certamente avremmo bilanci più attendibili e meno esposti ad aleatorietà e incertezza che, come è noto, in economia rappresentano uno dei mali peggiori.