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 2009  marzo 27 Venerdì calendario

DUE LETTERE A SERGIO ROMANO SULLA CACCIA


Diritti e differenze
Caro Romano, mi permetta di dissentire dalla sua affermazione in risposta alla lettera su caccia e sport ( Corriere, 22 marzo).
Lei afferma che non vede nessuna differenza tra il macello di un bove per scopi alimentari e l’abbattimento di un cinghiale per sport.
Premettendo che per gli animali allevati per scopi alimentari bisognerebbe attuare ogni procedura al fine di provocare la minore sofferenza degli stessi, è logicamente impossibile pensare di poter vietare di utilizzare la carne come cibo per motivi etici. Trovo invece aberrante che nel 2009 ci siano persone che ancora cerchino di giustificare la caccia come sport, dove l’unica ragione che giustifica l’uccisione dell’animale è soltanto il piacere della morte di un essere innocente. E trovo stupido e ridicolo chi giustifica la caccia con questioni tipo il controllo del territorio, la pericolosità di una specie e cose del genere.
Giovanni Bologna
acatecas@libero.it

Riconosco di avere esagerato: fra il piacere del cacciatore e la neutralità del macellaio esiste pur sempre una differenza. Ma il suo giudizio sui cacciatori mi sembra troppo severo. Ho votato sì nel referendum del 1990 (fallì per la mancanza del quorum) e mi piacerebbe che i cacciatori non avessero il diritto di attraversare liberamente le proprietà private. Ma non credo la caccia possa essere trattata come un gioco sadico e crudele.

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Tradizioni antiche
Caro Romano, un lettore le ha scritto che i cacciatori definiscono la loro pratica «uno sport». Da parecchio tempo non lo è più. La caccia infatti, così come è oggi, è solo un’attività per la gestione di quel patrimonio comune che è la fauna selvatica. Non condivido nemmeno la risposta che lei ha dato al lettore, quando sostiene che tra il «macello di un bove e l’abbattimento del cinghiale» non ci sia differenza. La differenza è negli stessi termini che lei ha usato: «macello» e «abbattimento». Dietro l’uccisione di un bove non c’è altro che un cruento atto materiale, banale e quotidiano, che trasforma una creatura in filetti, fese e coda alla vaccinara.
Nell’abbattimento di un cinghiale c’è invece un universo di cultura che va dai concerti per corni di Haydn e Rossini alle pagine di Tolstoi, Turgenev e Hemingway, dalle pitture rupestri dei nostri antenati cavernicoli agli arazzi Gobelin e ai quadri del Domenichino. A volte la cultura venatoria copre anche il versante religioso.
L’invocazione «Viva Maria!» echeggia in Maremma ogni volta che i cacciatori abbattono un cinghiale.
La tradizionale messa di Sant’Uberto alla quale i cacciatori possono assistere con cani e fucili, mantenendo in testa il cappello, è un altro esempio. Sono giunti anche da noi, dalle foreste del Centro Europa, le usanze pagane di esorcismo della morte. il rito germanico del Waidmannsheil, e l’offerta del rametto insanguinato al cacciatore responsabile dell’abbattimento, come una richiesta di perdono all’animale sacrificale trasformato per un attimo in divinità silvana. Questa è la differenza.
Bruno Modugno
bruno.modugno@tin.it
Grazie per la sua lettera, piena di riferimenti storici e culturali molto interessanti. Lei ha definito un’affascinante religione della caccia, per metà cristiana e per metà pagana. A me sembra tuttavia che i suoi fedeli abbiamo motivazioni più semplici e molto terrene.