Lettera a Sergio Romano 27/03/2009, 27 marzo 2009
LETTERE A SERGIO ROMANO
Del conflitto che da 25 anni insanguina l’Irlanda del Nord mi sfugge essenzialmente una cosa: quali sarebbero questi benedetti «motivi religiosi» che spingono frange di nordirlandesi a compiere atti di terrorismo?
Giovanni Meregalli
zovan.m@tin.it
A chi le domandava perché i vili attentatori degli ultimi fatti irlandesi non fossero stati etichettati come «terroristi cattolici» lei ha risposto tornando alla Guerra dei trent’anni. Ma nella fattispecie della Resistenza dei Repubblicani irlandesi contro il Regno Unito degli ultimi 150 anni il fattore religioso rivestì sempre un carattere strumentale, tanto che «nell’opinione corrente, il Sinn Fein era visto come un partito d’ispirazione bolscevica, sovversivo ed antistatale» e De Valera «sottolineò con vigore che la causa irlandese non era – come erroneamente si sosteneva – una questione religiosa, ma un problema politico ed economico». Sono citazioni dal documentato libro «Santa Sede e questione irlandese», che Gianni La Bella ha pubblicato nel 1996 sui controversi rapporti tra Vaticano e irredentismo irlandese in un periodo in cui le relazioni con il mondo anglosassone non erano ancora ben sedimentate e i cattolici, sotto l’Impero britannico, come negli Usa, erano ancora vittime della diffidenza di una certa opinione pubblica.
David Rettura
david.rettura@email.it Cari lettori,
V
oi vi chiedete, giustamente, se il conflitto civile dell’Ulster fra cattolici e protestanti possa considerarsi una «guerra di religione ». Certo il fattore religioso non è il solo motivo della ferocia con cui i due campi si sono combattuti, soprattutto negli ultimi decenni. Esistono ragioni etniche, sociali, culturali. Esiste nella comunità dei cattolici il ricordo dei massacri subiti all’epoca di Cromwell e del grande esodo, quando la «potato famine» (la terribile carestia fra il 1845 e il 1849) e le colpevoli negligenze del governo di Londra provocarono un’emigrazione di massa verso gli Stati Uniti. Ed esiste l’influenza sulla questione irlandese di grandi eventi politici europei, dalle rivoluzioni comuniste ai moti studenteschi del 1968.
Ma la religione ha la sua parte e le sue responsabilità. Lo studioso italiano che ha maggiormente affrontato recentemente questo aspetto del problema è Paolo Gheda, autore di un libro apparso presso Guerini Associati nel 2006 («I cristiani d’Irlanda e la guerra civile 1968-1998») e di un saggio che apparirà quanto prima in un’opera collettiva («Religioni, popoli e nazioni dal sessantotto all’11 settembre») presso lo stesso editore. Gheda osserva anzitutto che l’appartenenza religiosa è diventata l’abito, il segno distintivo, il dato identificativo di ciascuno dei due fronti religiosi. La chiave di cui un bambino si serve per separare i coetanei del suo campo da quelli del campo avverso è una domanda: Do you know the Hail Mary? Conosci l’Ave Maria? Le Chiese, d’altro canto, hanno contribuito allo scontro cercando di controllare per quanto possibile le truppe dei loro fedeli; e lo hanno fatto opponendosi entrambe ai matrimoni misti (un fenomeno, peraltro, in continuo aumento). Il problema all’origine di questi atteggiamenti è il rapporto demografico fra i fedeli delle due religioni: i protestanti sono il 58%, i cattolici il 42%. Da quando il governo britannico ha solennemente dichiarato che non avrebbe fatto nulla contro la volontà della maggioranza, la Church of Ireland (sorella dell’anglicana Church of England) difende tenacemente il suo patrimonio demografico. Sa che la Chiesa romana impone al coniuge cattolico di educare i figli nella sua fede e teme che i matrimoni misti abbiano per effetto di erodere gradualmente il suo gregge. Mentre la Chiesa romana, dal canto suo, teme che il matrimonio misto allarghi quella zona grigia della società in cui la fede si è andata progressivamente affievolendo.
La buona notizia, cari lettori, è che le due Chiese si sono accorte degli effetti che la loro intransigenza stava producendo nel Paese. Assistiamo, soprattutto dopo gli accordi del Venerdì Santo, a più frequenti manifestazioni di ecumenismo e a un maggiore coinvolgimento del clero nei movimenti per la pace. Se le impressioni di Paolo Gheda sono giuste, è possibile sperare che gli ultimi attentati rappresentino soltanto i rancori di gruppi marginali. Il modo in cui l’intera società dell’Ulster ha reagito a quegli eventi sembra dimostrare che il clima è finalmente cambiato.