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 2009  marzo 26 Giovedì calendario

UNGHERIA TRADIMENTO EUROPEO


 solo un corridoio che finisce su una porta di cristallo, ma condensa in pochi metri molti anni di storia europea. Giovani blogger spettinati come poeti dell’800 si accalcano contro la vetrata Art Déco. Ne esce uno strano politico, Gabor Fodor, mentre il premier Ferenc Gyurcsany resta nascosto da qualche parte lì dietro. L’aria è elettrica, tutti si godono gli intrighi della democrazia ignorando il Danubio alle finestre o i soffitti splendidi di questo parlamento eretto un secolo fa a imitazione di Westminster. Fodor, a 47 anni, è una figura delicata, più cantante inglese anni ’60 che ruvido capo partito, ma stavolta le chiavi dell’Ungheria le ha lui.
Da sabato il governo di Budapest allunga ufficialmente la lista delle vittime della crisi finanziaria. Gyurcsany, l’ex giovane comunista riciclato oligarca degli affari e poi leader socialdemocratico, ha ormai gettato la spugna. Meglio farlo ora che quando sarà ancora più giù nei sondaggi: si è dimesso di colpo anticipando il suo pari grado di Praga Mirek Topolanek, sfiduciato nel parlamento martedì. A febbraio era caduto anche il governo lettone e ormai sono già tre su dieci quelli delle Repubbliche ex socialiste dell’Ue disarcionati dalla recessione. Altrove, con Bulgaria, Lituania e Romania in primo piano, le dimostrazioni di piazza stanno allargando il contagio in tutta l’Europa centro-orientale.
Fodor, a Budapest, non perde un’oncia della sua flemma da Beatle. Senza il 6,5% dei suoi liberal- democratici, non potrà nascere un governo di tecnocrati sul modello dell’Italia primi anni ’90, guidato dall’ex governatore Gyorgy Suranyi o dall’economista Tamas Meszaros. Senza quel governo concepito per l’impopo-larità, non ci saranno massicci tagli al welfare. E senza quei tagli, mentre l’economia si contrae di almeno il 3% quest’anno e il deficit torna a esplodere, si fermerà il flusso di aiuti già stanziati dall’Fmi, dalla Banca mondiale e dall’Ue. Sono in tutto venti miliardi di euro per un’economia il cui prodotto lordo ne vale quasi cento: privata di questa enorme bombola a ossigeno, l’Ungheria collasserebbe all’istante sotto il peso degli squilibri accumulati per anni. Secondo stime di Unicredit il debito estero è superiore al Pil, solo quello in scadenza quest’anno oltrepassa le riserve della banca centrale e quasi due mutui su tre alle famiglie sono in euro o franchi svizzeri anziché in fiorini ungheresi.
Il problema, per Matyas Gati e milioni come lui, è che da ottobre la moneta magiara è crollata. Gati, capo-segreteria dei socialisti, segue febbrile i negoziati in parlamento ma ora cercando anche un secondo lavoro. Per comprare casa un anno fa ha preso un mutuo alla Erste Bank, l’istituto austriaco che con la belga Kbc, Cib (gruppo Intesa Sanpaolo) e Unicredit controlla l’80% degli sportelli in Ungheria. Gliel’hanno offerto in franchi svizzeri e lui ha accettato, perché gli interessi erano minori. Da allora il fiorino è crollato di oltre il 20%. «Il mutuo era il 15% del mio stipendio – dice Gati – Ora è il 35%». Né lui né Erste avevano visto la trappola, a crisi subprime già avviata e in un Paese da anni oberato dal doppio deficit di bilancio e verso l’estero? «Pensavo di uscirne prima che la crisi arrivasse », spiega Matyas Gati.
Su scala di un Paese o di un intero pezzo di continente, è quella che il banchiere Krisztian Orban chiama «la versione europea dei subprime: una follia collettiva in cui tutti hanno ingannato se stessi pensando di uscirne prima del crollo». Orban, fondatore e direttore generale della boutique finanziaria Oriens, parla con un accento americano da capitalista irriducibile. Ma verso le banche sbarcate qui con l’ingresso dell’Ue, protagoniste del boom del credito e di grandi profitti negli anni buoni, non è tenero. «Ci risulta che le filiali di Budapest hanno istruzioni dalle case-madri europee di non rinnovare neanche i prestiti esistenti – sostiene ”. Molte imprese stanno saltando, la disoccupazione cresce ».
 qui che questo banchiere d’affari e molti altri nelle élite magiare si sentono traditi. «Abbiamo privatizzato a tappeto, rinunciato ai campioni nazionali, aperto il settore finanziario più rapidamente di quanto abbiano mai fatto Francia o Italia – accusa Orban ”. Siamo stati i primi tifosi del mercato europeo, più di voi. Ci sentiamo ingannati».
La reazione non si farà attendere. Viktor Orban, uno dei padri dell’Ungheria democratica, si aggira già sovreccitato, in maniche di una camicia da boscaiolo, per tappeti rossi del Parlamento. Parla con tutti, confabula, promette. Si infiamma come un vero capo.
Sa che dopo il voto, previsto entro un anno, tornerà lui al potere con i suoi conservatori e da subito lancia segnali alle famiglie indebitate: metterà un tetto alla presenza delle banche estere, ha detto in un recente discorso, mai più oltre la metà del mercato nazionale. Fodor è molto più cauto (« il gioco del mercato - sostiene - ma le banche ci diano ancora credito») e anche i socialisti evitano attentamente il populismo anti-europeo. Forse perché qui, nel pieno di questa crisi, sta riemergendo uno dei grandi traumi del socialismo: tutti dentro e fuori il Parlamento ricordano sì la carenza di libertà, ma di più ancora quella di liquidità. Il ricorso eccessivo ai capitali esteri si spiega anche in reazione a quella carestia atavica e il nuovo collasso del credito agita nel sonno vecchi fantasmi sovietici.
«Forse siamo stati un po’ frettolosi nell’aprire il nostro mercato ma prima del cambio di regime il credito ci è mancato tanto », spiega Ildikò Lendvai. Questa signora, capogruppo dei socialisti di Gyurksany in parlamento, nel passato regime guidava la commissione per la censura della stampa. Oggi invece è molto addentro ai negoziati che il governo conduce ancora con le banche estere perché non voltino le spalle all’Ungheria, «Unicredit e Intesa Sanpaolo incluse », dice.
Mark Szabò, analista del Perspective Institute, rincara: la ritirata degli istituti europei adesso che c’è la crisi sarebbe «moralmente ingiustificabile».
Perché quando Gyurksany è andato in parlamento a dire che non ce la fa più, fuori i manifestanti erano poche decine. Ma se anche il prossimo governo fallisce e la crisi si avvita davvero, un capro espiatorio c’è già: quelle che qui chiamano le «banche madri», rischiano di diventare matrigne.