Paolo Di Stefano Ludovico Einaudi, Corriere della sera 24/3/2009, 24 marzo 2009
NONNO GIULIO E IL GRANDE FREDDO DI CASA EINAUDI
I tre locali sono un perfetto incrocio tra la casa editrice e gli appartamenti in cui Giulio Einaudi ha vissuto la sua lunga vita: le due case di Torino, quella di Roma e quella paterna di Dogliani. Basta un colpo d’occhio: muri bianchi molto alti, librerie bianche fino al soffitto, quadri informali e astratti, un caminetto, il parquet scricchiolante, tavoloni nel mezzo, ingombri di carte e di libri. Edificio umbertino, nei pressi di piazza Vittorio. Stessa casa in cui visse Giacomo Debenedetti, uno dei maggiori critici del secolo scorso, e in cui nacque la rivista
Primo Tempo. oggi la sede della Fondazione intitolata da sette anni all’editore più capriccioso, aristocratico e geniale del dopoguerra. All’indomani della sua morte, avvenuta nell’aprile 1999, gli eredi dovettero sgombrare le varie case. Malcolm, uno dei numerosi nipoti, aveva trent’anni e si rimboccò le maniche, inscatolando, caricando e scaricando le carte, i volumi, gli oggetti. Si deve a lui la prima idea della Fondazione, in cui far confluire quei materiali.
proprio Malcolm che compare accanto al nonno nella fotografia di copertina di Frammenti di memoria, l’unico libro firmato da Einaudi, uscito nell’88 per Rizzoli: una raccolta di ricordi pubblici e privati che ora, per il decennale della scomparsa, verrà riproposta da Nottetempo arricchita di documenti ritrovati e immagini inedite. Questa è l’iniziativa con cui la Fondazione ha voluto celebrare il decennale: niente eventi pubblici. Seguirà, nei prossimi mesi, un catalogo della biblioteca che appartenne a Giulio: oltre tredicimila volumi, in parte dedicati dal Gotha della letteratura non solo italiana e spesso annotati dallo stesso Giulio, in parte frutto della sua smania collezionistica. Malcolm ha 41 anni: nella foto dei Frammenti, scattata sulle montagne luminose di Rigoni Stern, appare ragazzino con uno zainetto sulle spalle.
Tutta la potenza simbolica che si sprigionava da quella fotografia è ora riassunta in questi locali, dove sono stati raccolti i libri del nonno, i quadri di casa, la famosa collezione di reggilibri cui Giulio si dedicò per una vita, le carte private, le fotografie. Un patrimonio enorme e prezioso. Struttura low-cost, ma dietro Malcolm e un gruppo di suoi amici volontari c’è, moralmente, la famiglia: la Fondazione è nata infatti da un lascito di zio Roberto, il figlio maggiore di Luigi, e dal sostegno della San Giacomo Charitable Foundation voluta in America da Mario, l’altro fratello dell’editore, e ora gestita da suo figlio Luigi Roberto. Nel consiglio d’amministrazione siedono anche Paolo Terni, il musicologo preferito di Ronconi, e zio Ludovico, il famoso musicista figlio di Giulio. E la casa editrice?
Malcolm non nasconde la sua perplessità: «Nello statuto è prevista dall’origine la sua presenza, ma quando nacque la Fondazione, pur avendo offerto la possibilità di aderire come socio fondatore, non riuscimmo ad avere risposte ». Roberto Cerati, attuale presidente Einaudi e fedelissimo braccio destro di Giulio per mezzo secolo, aderì: «Ma a titolo personale. Oggi penso sia stata una fortuna, forse le nostre logiche di funzionamento sono troppo distanti». E non finisce qui. La casa editrice ha programmato una Giornata Einaudi che si terrà a Torino il 4 aprile con letture e incontri nelle scuole e con una tavola rotonda conclusiva, ma si è limitata a informare la Fondazione solo qualche giorno fa, a cose fatte: «Mi hanno telefonato dall’ufficio stampa elencandomi le iniziative», dice Malcolm, «ho ringraziato e fatto i miei auguri, ma alla mia interlocutrice ho aggiunto che non si stupisse se non ero commosso». Nota a margine: «Il problema con la Einaudi è che sembra un po’ un ministero, non capisci mai con chi hai a che fare. Qualche giorno prima che venisse pubblicato Officina Pavese, la raccolta di lettere editoriali di Cesare Pavese, mi arriva una lettera dall’ufficio diritti che chiedeva l’autorizzazione agli eredi dell’editore, visto che si pubblicavano ampie corrispondenze di Giulio: avrei dovuto acconsentire senza neanche aver visto il libro.
Una settimana dopo mi è arrivata la copia omaggio stampata».
I rapporti con nonno Giulio?
Malcolm è nato nel ’68 da Elena, la prima figlia del secondo matrimonio di Giulio con Renata Aldrovandi: «Ho maturato tutti gli anticorpi della visibilità: chiamarsi Einaudi ti mette fortemente a rischio di diventare un megalomane squilibrato». In realtà Malcolm si definisce un testimone occasionale: «Intanto c’era una specie di gigante usurpatore fatto di parole altrui: era il Grande Editore, e sembrava essere lui ma era così diverso da quel poco di lui che percepivi. Un cortocircuito costante. E tu scoprivi poi di essere un attributo di quella entità. Eri il nipote di Einaudi: "Le presento il nipote di Einaudi", "Che piacere, mi saluti il nonno allora…". Una sorta di entità sociale immaginaria che suscitava, alternativamente, monumenti o caricature, servilismi e rancori». La galleria dei luoghi comuni sull’Editore-Principe è infinita: «Le macchiette, piuttosto: l’aristocratico che gioca ». a fare il comunista, l’indossatore di maglioni inglesi, il dandy predatore di pietanze altrui, il Caligola che fa senatori i cavalli, il dittatore puerile, il mecenate gaudente, snob e (finalmente) fallito. C’è chi ha speso le sue migliori energie intellettuali nel distillare queste immagini per poi bersele in pubblico offrendone a tutti compiaciuto...
Lui, Giulio Einaudi, non sembra però averne mai sofferto oltre misura: «A me pare che queste cose le utilizzasse: i luoghi comuni su di lui li cavalcava quando era comodo o li calzava come un’armatura per essere lasciato in pace, o per essere creduto fesso e per poi far fessi i presuntuosi, e però ogni tanto perdeva anche il controllo dell’armatura, e ci cascava dentro, fragorosamente. Di fianco a questo rimbombante Giulio Einaudi ce n’era un altro più stupefacente e silenzioso: l’esteta, il giocoliere d’arte contemporanea, quello che allestiva case e spazi di lavoro facendoli diventare luoghi difficili da descrivere per l’intelligenza formale che li connotava, per la qualità e composizione degli ingredienti. Per me è sempre stato un rebus: "Ma come fa?" mi domandavo. Cercavo di capire se quello stile avesse una regola nascosta ma non la trovavo».
La mamma di Malcolm muore per un’infezione polmonare nel ’73. Il papà Doc Humes era uno scrittore beat americano, amico di Norman Mailer e Timothy Leary, che Malcolm (un nome figlio degli ideali rivoluzionari) conoscerà solo a 23 anni. Verrà adottato dai nonni Giulio e Renata, che però si separano quando lui ha sette anni: «Non mi resi conto di quel che stava accadendo. Sono stato nipote e figlio insieme». Il ricordo più tenero risale alla prima infanzia: «Avrò avuto sei anni, in piena notte mi svegliai per un incubo e corsi a cercare qualcuno: il nonno era solo, in maniera affettuosa e impacciata mi prese a dormire con sé nel lettone. Ecco, ricordo questa sua sensibilità privata, timida, inaspettata e fragile, ti induceva quasi a diventare protettivo nei suoi confronti. Questo mi rimase credo, anche più in là, l’idea che lui dovesse fare il suo lavoro, muovere dall’interno quel gigante di parole altrui che era la sua casa editrice. Si capiva che era importante. Nonostante la sua assenza, fu sempre chiaro e naturale che non si potesse fargliene una colpa... ». Malcolm cresce con la nonna, che, dice, «ha tirato su tutti gli avanzi della famiglia, tra cui me». Nonno Giulio era distante, ma «non mancava mai il rito della cena del martedì sera ».
C’è poi un altro Einaudi, ancora più sorprendente per Malcolm, quello scoperto dopo la sua morte, sistemandone le carte: «Un editore profondamente competente, anche sul piano tecnico: prezzi di copertina, collane, tirature. Un uomo che non solo conosceva perfettamente il proprio mestiere ma che, in più, ha saputo dissimularlo, farlo fare agli altri, fingersi sempre a Cap d’Antibes, ma esercitando a distanza un controllo sottile e discreto, un uomo rimasto invisibile pur essendo sotto i riflettori. E quando ha accettato di subire le sue sconfitte, verosimilmente lo ha fatto dissimulando, accettando l’umiliazione perché se ne pascessero i suoi nemici, in realtà portando in salvo qualcosa di cui gli altri non si accorgevano». Che significa in definitiva occuparsi oggi di lui? «Forse è ancora un modo di portare in salvo questa complessità, che riguarda anche il suo tragitto e tutti quelli che sono stati sulla sua barca. una complessità che oggi invece sento tradita, spesso anche con una certa insofferenza».