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 2009  marzo 24 Martedì calendario

VENEZIA E IL SUO DECLINO UN ESEMPIO DA NON IMITARE


Ogni qualvolta le capita di rispondere a lettere come quella del signor Porzio ( Corriere, 11 marzo), che mettono in dubbio il fatto che l’unità d’Italia sia stata un fatto positivo, passando in rassegna le ragioni degli oppositori lei afferma che «i veneti celebrano religiosamente il genetliaco dell’imperatore Francesco Giuseppe». Da un conoscitore della storia, come lei si picca di essere, mi aspetterei di meglio e di più.
Ma forse la «damnatio memoriae» di cui è stata oggetto la millenaria storia della Serenissima Repubblica di Venezia è funzionale al progetto di non far risvegliare nel popolo veneto sentimenti di sano patriottismo per uno stato, l’unico nella penisola, che è stato veramente autonomo e indipendente da dominazioni straniere per più di 1.300 anni. Una simile linea di pensiero in lei, che vanta ascendenze venete, è sintomatica di come l’Italia post-risorgimentale abbia lavorato bene, in modo oserei dire orwelliano, per cancellare ogni radice e ogni orgoglio per quanto c’era di eccellente nell’Italia preunitaria. Concludendo, le dico che i veneti non celebrano Cecco Beppe... i veneti hanno di più e di meglio nel loro passato!
Enio Nicoletti
enio.nicoletti@gmail.com

Caro Nicoletti,
Siamo tutti, veneti o no, orgogliosi della storia veneziana. La Repubblica non fu soltanto una piccola grande potenza commerciale e marittima. Fu una straordinaria fucina di artisti e letterati. Fu un Commonwealth multinazionale in cui i veneti, gli slavi, i greci e gli albanesi crearono insieme forme di civile convivenza. Fu governato da un’oligarchia che seppe perseguire gli interessi comuni e punire severamente le proprie pecore nere. Fu servita da una diplomazia che sapeva leggere e interpretare gli avvenimenti internazionali. Per usare un’espressione coniata da uno statista britannico a proposito del suo Paese, era un pugilatore che combatteva al di sopra del proprio peso. Fu questo, per alcuni secoli, il miracolo di Venezia: la capacità di fare grande politica insieme a Stati che erano, sul piano territoriale e demografico, molto più grossi e potenti della Serenissima.
Ho scritto «per alcuni secoli » intenzionalmente. Il suo declino cominciò nel Cinquecento quando non comprese l’importanza della scoperta dell’America e continuò a costruire navi che erano del tutto inadatte ai lunghi viaggi oceanici. Quella scelta ebbe l’effetto di ridurre il volume degli scambi, l’accumulazione del capitale e le risorse dello Stato. Un secolo dopo, nel Seicento, la Repubblica era ancora presente nelle grandi questioni mediterranee e nella politica europea. Nella guerra di Candia perdette, alla fine, l’isola di Creta, ma Francesco Morosini, negli stessi anni, conquistò la Morea e occupò Atene. Fu un breve ritorno di fiamma, un successo labile destinato a esaurirsi in meno di trent’anni. Con il Trattato di Passarowitz (1718), Venezia si ridusse alle isole ioniche, alla Dalmazia e ai suoi possedimenti di terraferma. Credette che la neutralità l’avrebbe protetta dalle ripercussioni della politica internazionale e si affidò in tal modo al buon cuore delle grandi potenze. Dopo essere stata la Repubblica dell’audacia commerciale, del valore marittimo e delle grandi ambizioni politiche, divenne la città del Carnevale, una versione settecentesca di Disneyland. Il suo pavido crollo di fronte alle truppe francesi nel 1797 dimostrò che lo Stato era ormai un guscio vuoto, privo dell’orgoglio e delle grandi energie del passato. Soltanto i reggimenti slavi, nelle malinconiche giornate della sua morte, erano pronti a morire per la Serenissima. Piuttosto che la Venezia del 1797 dovremmo ricordare orgogliosamente quella del 1849 quando la città cedette all’Austria soltanto dopo avere combattuto sino allo stremo delle sue forze. Anziché cullarci nel ricordo delle glorie veneziane dovremmo ricordare che la ingloriosa morte di Venezia nel 1797 fu l’esempio che maggiormente esortò molti italiani a perseguire la strada dell’unità.
Un’ultima considerazione, caro Nicoletti. Non sono sicuro che i veneziani d’oggi abbiano tutte le carte in regola per essere orgogliosi del loro passato. Come lo stato di prostrazione del Sud è in buona parte una responsabilità dei suoi abitanti, così il lungo declino di Venezia è in ultima analisi una responsabilità dei suoi cittadini. I veneziani di una volta non avrebbero impiegato quarant’anni a discutere di acqua alta, e il Mose l’avrebbero già costruito.