Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  marzo 25 Mercoledì calendario

IL VERO PROBLEMA NON E’ LA QUANTITA’


Giuseppe Roma, direttore del Censis, gli italiani devono lavorare di più per uscire dalla crisi, come dice il presidente del Consiglio?
«Il presidente Berlusconi, indicando nel lavoro un punto di debolezza, ha sollevato un problema vero: nel Rapporto Censis del ”93, in piena crisi, gli italiani indicavano nel ”lavorare di più” la via maestra per uscire da quella situazione. Oggi, secondo una nostra ricerca del febbraio scorso, parlano di risparmi, di riduzione dei consumi, di gestione delle risorse esistenti, ma solo il 7% indica nel lavoro la soluzione».
E questo che vuol dire?
«Vuol dire che il lavoro non è più percepito come forza trainante. D’altronde in questo paese è cresciuto soprattutto il lavoro a bassa qualificazione: quello di cura, di assistenza. Per contro quello di alto profilo - quello, per capirci, che assorbe laureati - è rimasto indietro. Sintesi: cresce solo il lavoro che non fa Pil e non produce ricchezza».
Ma aumentano anche disoccupati e cassintegrati
«In questo frangente sì. Ma negli ultimi 15 anni il numero complessivo degli occupati è cresciuto di 3 milioni, anche se sono stati tutti lavori di bassa qualificazione. Senza dire che è scaduta la considerazione del lavoro in quanto tale. Una volta l’operaio dalle mani callose era orgoglioso del suo saper fare. Oggi vige l’equazione lavoro uguale reddito, e questo reddito, il più delle volte, specie per i giovani, è pure basso o bassissimo. Il problema, dunque, è sì la quantità del lavoro, come dice Berlusconi, ma soprattutto la qualità».
In positivo: che si può fare?
«La prima cosa che segnalerei è la semplificazione normativa che blocca sia il lavoro che il fare impresa. Una storia vecchia come il cucco ma mai risolta. Secondo: intervenire sul cuneo fiscale. Il 76% dell’utile (sia chiaro: dell’utile, non del fatturato) se ne va in balzelli vari. Terzo: creare strumenti finanziari che premino le idee innovative. Ultima cosa: oggi si parla di edilizia. A questo discorso io assocerei il tema dell’energia: ”ti finanzio l’ampliamento - per esempio - ma se metti i pannelli fotovoltaici” e via di questo passo».
Parliamo dei giovani e della loro formazione.
«Un dramma. L’Italia è cresciuta grazie ai periti industriali. Oggi la formazione tecnica è in ribasso. Le università continuano a sfornare eserciti di laureati in discipline umanistico-parolaie che danno accesso a non-lavori pagati due lire».
Una indicazione in positivo per i giovani?
«Dimenticare le due formule tradizionali del lavoro: o imprenditoriale o dipendente. Puntare invece al lavoro ”libero”: so fare delle cose e le faccio per più soggetti.
Quali sono i lavori del futuro?
«Quelli della salute e del benessere, senza dubbio. Ma anche quelli dell’intrattenimento (dal localetto con musica dal vivo allo spettacolo). Poi tutti i servizi on line: dalle prenotazioni fino alla spesa al supermarket. Infine, direi, la manutenzione ”organizzata”: società che forniscono servizi alle famiglie dall’idraulico al falegname, con un back office di supporto. Quanto alle donne, che sono più istruite degli uomini, per loro si apre la prospettiva del pubblico impiego di qualità: dalla sanità, alla magistratura, alla scuola».