Filippo Ceccarelli, la Repubblica, 25/03/2009, 25 marzo 2009
SILVIO E L’ULTIMA TENTAZIONE CON LA SMANIA DI CESARISMO LO STATUTO DEL PREDELLINO
Cesarismo? Sì, grazie. Non c´è di che. E in effetti tutto lascia pensare che dalle parti di Palazzo Grazioli stiano battendosi come leoni per appioppare al Pdl una sorta di «statuto del predellino» che di riffa o di raffa, in modo più o meno implicito o evidente, attribuisca a Berlusconi il potere e il rango di presidente a vita.
Nel febbraio del 44 a.C. anche Caio Giulio Cesare, peraltro in fase di accentuata divinizzazione, ottenne l´imperium a vita. Ma in fondo, già nel novembre scorso, su Libero, era uscito un plutarchianissimo articolo sulle vite parallele del Cavaliere e del suo imminente predecessore. Molto avevano i comune i due personaggi, oltre all´ansia della calvizie da attenuare a colpi di trapianti e foglie d´alloro: origine da self made man e doti oratorie, discese in campo e passaggi del Rubicone, lex Memmia e decreto Alfano, populismo e creazioni amorose in rima, Apicella docet, e perfino una certa fama di play-boy - per quanto il quotidiano puntualizzasse che solo il leader dell´antica Roma «non faceva troppe distinzioni di sesso».
Ora, forse la lettura dell´ultimo saggio di Luciano Canfora su La natura del potere (Laterza), che proprio a Cesare dedica un interessante capitolo, consiglierebbe di non enfatizzare il paragone, e magari anche di attenuare il turbo-cesarismo statutario di lunga deriva. Però l´altro giorno il portavoce berlusconiano Capezzone spiegava con qualche candore che lo spirito con cui si vanno delineando le nuove norme del Pdl sono destinate «a costruire un processo destinato a durare per i prossimi trent´anni». Forte allora dei progressi della medicina predittiva di don Verzè (processo «Quo vadis»), nel 2039 il presidentissimo Berlusconi avrà appena 102 anni. Un ragazzino.
E si può sempre scherzare sugli statuti dei partiti che sono semplici pezzi di carta, anche se in qualche modo nel loro piccolo, specie riguardo alla democrazia interna, indicano pur sempre come si intendono governare i cittadini. Così nel luglio del 1994, dopo la prima vittoria elettorale berlusconiana, il professor Norberto Bobbio, sulla Stampa, si pose seriamente il problema di cosa fosse un «non-partito» come Forza Italia. I partiti, scrisse, «debbono avere uno statuto che ne regola gli scopi e la composizione, la struttura interna e i rapporti con le istituzioni. La loro presenza sollecita inevitabilmente alcune domande: "Come vi si accede? Quali gli obblighi dell´iscritto? Fra gli obblighi esiste anche quello di democrazia interna?"».
Il giorno dopo Berlusconi rispose piccato. Certo che c´era uno statuto, legalmente registrato, in cui si parlava «esplicitamente dei fini». (E tra questi, con qualche sorpresa al giorno d´oggi, viene fuori la difesa della Costituzione e l´ispirazione liberista). Ma poi accusava Bobbio di opposizione preconcetta. Quest´ultimo aspettò qualche giorno: «Ho rinviato la risposta perché attendevo di ricevere lo statuto del nuovo raggruppamento politico che veniva presentato nella lettera, e di vederlo pubblicato su qualche giornale. Sarà per un´altra volta».
Non la si farà troppo lunga. L´oggetto misterioso c´era: depositato nel gennaio del 1994, rivisto e integrato a maggio e a giugno di quell´anno. Due anni dopo, per acclamazione, si diede incarico a Berlusconi di redigerne l´articolato definitivo. Quando si conobbe, nel 1997, e a riprova che tutto in genere non solo è già successo, ma con le stesse identiche parole, lo statuto di Forza Italia venne definito (da Marco Taradash, unico a parlarne) «cesarista». Che poi è un modo elegante per dire che del partito, anche oer ragioni di quattrini, Berlusconi è ed è comunque destinato a restare padre, padrone, padreterno e adesso, come concedeva lui stesso venerdì scorso a Bruxelles, anche «Patriarca», naturalmente maiuscolo.
A veder bene, oltretutto, neanche adesso il Cavaliere usa il termine partito, ritenendosi semmai lessicalmente alla guida di un «Popolo». E insomma, al di là delle chiacchiere sulle norme e sui poteri presidenziali, ha detto chiaro e tondo il senatore Quagliariello, con buoni studi storici e giudici alle spalle, che la presente è una «rivoluzione carismatica»; nel senso che il Pdl, come Forza Italia, nasce eminentemente da una vicenda di carisma «e non da un meccanismo democratico».
Inutile girarci intorno. L´altro giorno Berlusconi ha comunicato che per le elezioni, sui muri delle città, ci dovrà essere solo la sua faccia; e ieri sul Riformista si poteva leggere che in vista del congresso di nascita del Pdl il Cavaliere ha già scritto di suo pugno le parole del nuovo inno. Quelle del penultimo, dal significativo titolo «Meno male che Silvio c´è», di Andrea Vantini, si era limitato a cambiarle rinforzandole, forse con l´aiuto della sua brillante paroliera Loriana Lana, che tra i suoi antenati vanta il poeta romanesco Gigi Zanazzo. Di «Meno male che Silvio c´è» esiste comunque anche una versione in inglese, più modestamente intitolata «To Silvio», pare composta e fatta eseguire ad esclusivo uso e diletto dell´ex presidente americano George W. Bush. Forse anche a Cesare, nell´ultima fase auto-divinizzante, si offrivano tali onori. Ma certo quello che colpisce è come qualcuno, dalle parti del Pdl, pensi oggi di poter imbrigliare questo genere di potere in un povero statuto.