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 2009  marzo 25 Mercoledì calendario

NEL REGNO HIMALAYANO PRIGIONIERO DELLA FELICITA’

C’è la ricetta per superare la crisi finanziaria internazionale. Dove? In Bhutan. Lì non c’è più il Pil a segnalarci che siamo meno ricchi. C’è invece il FIL: Felicità Interna Lorda, misura la crescita spirituale perché, come sostengono gli economisti del luogo, solo da quella può nascere anche il benessere materiale.
Ecco cosa mi dice Jigmi Thinley, Primo Ministro del Bhutan, uno che non si troverebbe a disagio nella Camera dei Lords a Londra: «Lo sviluppo deve avere un obiettivo, non può essere fine a se stesso, l’uomo va rimesso al centro della nostra attenzione». E assicura «L’autunno scorso ero all’Assemblea dell’Onu e tutti parlavano della crisi economica, io nel mio discorso ho illustrato il nostro FIL, ho detto che tutti questi problemi finanziari, ecologici, alimentari dipendono da noi, ce li siamo creati noi con la nostra continua ricerca della crescita, con il consumo senza etica, il desiderio di possedere cose di cui non abbiamo bisogno. Molti leaders mondiali si sono detti d’accordo con me».
Troppo avanti per noi il Bhutan? Troppo indietro perché fermo ad un arcaico buddismo isolato dall’odierna civiltà di massa? Difficile dirlo, però forse ci aiuta dare un’occhiata a questo paese. In tutto il Bhutan non c’e un semaforo, hanno provato a installarne uno all’incrocio principale della capitale Thimphu, ma la cittadinanza si è ribellata: troppo brutto e anche inutile e dopo qualche settimana l’hanno tolto. Non troverete un tabaccaio, è vietato vendere sigarette anche se è permesso fumare, il riso c’è ed è abbondante ma non è bianco, è rosso come le utopie egualitarie dell’umanità. Non c’è un binario, un treno e nemmeno un McDonald, E’ il paese che ha la più stravagante ed esotica produzione di francobolli: al profumo di rosa, a 3 dimensioni, in basso rilievo, di metallo, di seta, di plastica.
Il primo quotidiano è apparso quattro mesi fa, in un paese che, ultimo al mondo, ha legalizzato la televisione e Internet meno di 10 anni fa, e poi ne ha subito bandito programmi violenti, come quelli di lotta libera professionale: influenze nocive sulla gioventù. Ma neanche il Bhutan ha trovato riparo alle telenovelas made in Bollywood: «una volta la sera si mangiava insieme e si parlava, ora tutti guardano la televisione e noi la sera preferiamo uscire», spiega una giovane studentessa incontrata all’ Om Bar di Thimphu mentre addenta un hamburger di Yak. Una ragazza che forse rappresenta quel 49 per cento della popolazione che ha meno di 21 anni e quel 60 per cento che sa leggere e scrivere, contro il 20 per cento del 1992. Forse anche lei come molti altri giovani di qui andrà a studiare all’estero, in India e in Australia, attratta da borse di studio che premiano la dedizione che in Bhutan insegnano dalla nascita.
I visitatori stranieri, che fino a 30 anni fa non erano ammessi, devono pagare 200 euro al giorno: il paese più caro al mondo. Il Ministro delle Finanze Lyonpo Wangdi Norbu spiega: «Vogliamo scoraggiare i campeggiatori, e tutti quei turisti che inquinerebbero il nostro ambiente». Li scoraggia anche l’ aeroporto, riconosciuto come il più pericoloso del mondo, nessuna compagnia straniera si sogna di atterrarci. Solo la Daikur, la compagnia aerea nazionale ha 2 Airbus che decollano da Calcutta e osano sfidare il labirinto di valli sfiorando i monti e atterrando in acrobazia fra «s» e raddrizzamenti in quell’unica striscia di terreno piatto che è l’aeroporto di Paro.
Un paese, come direbbe Gaber, di democrazia obbligatoria. Con il re, Jigme Singye Wangchuck, che si spoglia del suo potere assoluto per consegnarlo al popolo e il popolo che si ribella e lo implora di mantenerselo, forse anche spaventato perché nei paesi vicini come Bangladesh e Nepal, democrazia vuol dire turbolenza e corruzione. E allora il monarca, dittatorialmente, impone le elezioni. Ma non basta, poiché i bhutanesi sembrano impreparati alla democrazia, il re, un anno prima del voto vero, organizza in tutto il paese delle elezioni-prova, finte, con tanto di finta manifestazione di protesta, chiamando gli elettori a votare per dei partiti finti, il Blu, il Verde, il Rosso e il Giallo. Alle elezioni vere, svoltesi l’anno scorso, hanno partecipato solo due partiti con programmi sostanzialmente identici, ma ha stravinto, con 45 seggi contro 2, quello che nelle sue liste aveva 5 candidati già stati ministri nel governo del re.
Dichiarazione dei vincitori: «Abbiamo formato un partito non perché abbiamo idee particolari o programmi per lo sviluppo del Bhutan, ma solo perché il re ce lo ha ordinato». Ancora dopo il voto, centinaia di cittadini hanno manifestato per le strade in saliscendi di Thimphu chiedendo al re di annullare l’esperimento elettorale e ritornare alla monarchia assoluta. Invece il potere è andato ai laureati, solo loro potevano candidarsi, anche se sono il 5 per cento della popolazione. «So che ci accusano di elitarismo e discriminazione» mi dice il Presidente della commissione che ha organizzato le elezioni, Daho Kunzang Wangdi, «ma noi vogliamo dare importanza all’educazione e poi abbiamo visto cosa succede nei parlamenti di alcuni paesi a noi vicini!». D’altra parte, dice il primo ministro Thinkey «Ora la democrazia formalmente è perfetta, prima però che gli elettori capiscano che gli eletti rappresentano la loro volontà, c’è molto da lavorare».
Forse sarebbe più facile per i bhutanesi esprimere volontà e idee diverse se non fossero uniformati già dal costume tradizionale imposto dal re negli uffici, nei templi, nelle scuole e in tutte le cerimonie ufficiali. Per gli uomini e il «gho», che ricorda per il taglio fino alle ginocchia e per la stoffa i kilt scozzesi, per le donne la «kira», che arriva fino ai piedi. Gli strati più alti della società portano anche uno scialle il cui colore denota il loro rango.
Non è facile per i 700 mila bhutanesi correre verso la democrazia stretti come sono fra i due paesi più popolati del mondo, India e Cina, cioè in un posto del globo dove per mantenere una sovranità nazionale e un’identità hai un solo modo: l’isolamento. Altro che aperture democratiche o peggio alla globalizzazione. Rinchiusi fra le paure di finire come il Tibet occupato dalla Cina nel 1950 o come il piccolo regno himalayano del Sikkim che l’India si è annessa nel 1975. A questo s’aggiunga che il Bhutan è paese povero che aldilà degli aiuti internazionali per sussistere dipende dall’India che gli compra la sua risorsa principale, l’energia elettrica (43 per cento dell’export) ottenuta dalle acque che scendono dall’Himalaya,
La religione buddista, profonda nel Bhutan, non dà importanza alle forme terrene di organizzazione politica, al confronto preferisce l’accettazione dell’altro, alle aule parlamentari preferisce i Dzong, bianche fortezze dove si svolge la principale vita religiosa, con le gare di tiro con l’arco, le danze propiziatorie o di vittoria celebrate al loro interno che sono la prima attrattiva turistica del paese.
Non c’è niente da fare, Jigme Singye Wangchuck, il re che in 34 anni di regno ha abbattuto il feudalesimo distribuendo terre ai contadini più poveri e lanciando un sistema gratuito di sanità ed educazione, con la sua democrazia dall’alto ha fallito. E non si sa neanche come se la caverà il nuovo re, Jgme Khesar Namayel Wangchuck incoronato nel novembre 2008, 28 anni, fisico da attore di Hollywood, il più giovane sovrano del mondo educato nella patria liberale di Oxford. Perché la democrazia, la Felicità Interna Lorda, i grandi principi di ordine, di non violenza buddista hanno uno scheletro nell’armadio, la «questione meridionale»: 100 mila cittadini nepalesi fuggiti nel 90 dopo che il re aveva soppresso una manifestazione per i loro diritti di minoranza e da allora languono in campi profughi dell’Onu oltre il confine col Nepal. Vogliono rientrare, ma il Ministro degli esteri bhutanese dice che ci sono infiltrati terroristi maoisti. Così l’area vive di tensioni e disperazioni. E qui il Fil casca peggio del Pil.