Stefano Semeraro, La stampa 24/1/2009, 24 gennaio 2009
IL MIO FILM SU PANATTA. STRIA DI UN INTRUSO"
Calopresti, perché un film su Panatta?
«Per raccontare quella Italia. Panatta, la vittoria della Coppa Davis nel ’76. Il tennis che, attraverso Adriano, diventa popolare durante un incontro controverso: quello giocato nel Cile di Pinochet».
Che film sarà?
«Molto documentaristico. Adriano ha una presenza, una faccia cinematografica: sarà lui a raccontarsi».
Come è nato il film?
«Dall’incontro con Adriano, propiziato dal comune amico Piero Mascitti - che insieme a Valerio Terenzio produrrà il film - e dai discorsi fatti con lui su uno sport, il tennis, che in 4 ore racconta un mondo. A San Francisco ho sentito dire da Dustin Hoffman: la vita è come una partita di tennis, devi fare di tutto per tenere la pallina dentro le righe. Io volevo raccontare la partita che ho vissuto da ragazzo, a Torino, preso fra l’ammirazione per Panatta e gli slogan politici che lo attaccavano per la decisione di giocare in Cile».
Panatta, il figlio del custode dei campi del Parioli...
«Esatto. Che inizia a giocare ai tempi in cui il tennis in Italia era Pietrangeli e lui, di sinistra, era visto come un intruso. Ma che da lì a pochi anni diventa il n.1, imponendo un nuovo mondo. In una Roma frizzante, in cui Adriano si muove anche con i suoi amori».
Il tennis non ha incrociato spesso il nostro cinema...
«C’è in "Blow up" di Antonioni, ne "Il giardino dei Finzi Contini". E poi la partita fra Fantozzi e Filini: fondamentale per capire quell’epoca».
Lei ama lo sport?
«Sono un tifoso scatenato del Torino. Ho giocato a calcio fra i dilettanti, negli stessi anni in cui ho scoperto il tennis mettendo una rete sulla strada... quella cosa lì che vorrei ricordare. Con Panatta che mi racconta come ha iniziato a giocare: un quadrato di gesso disegnato sul muro e suo padre che gli aggiusta il manico».
L’intellighenzia italiana spesso ha snobbato lo sport...
«Sì, mentre nella cultura americana c’è il mito del povero che si riscatta attraverso lo sport. A noi manca questo meccanismo di racconto. In Rocco e i suoi Fratelli c’è l’esempio, credibile, di un tentativo di riscatto attraverso la boxe. A noi però manca un film come Toro Scatenato in cui lo sport sullo schermo è credibile anche tecnicamente. Nello sport gli americani giocano sempre in serie A, noi in serie B. L’ho capito anche guardando a New York i ragazzi nei playground, la potenza del loro sogno».
L’esempio è Million Dollar Baby.
«Lì c’è un’idea morale, ma il nostro cinema ne ha paura. A Panatta dicevo: pensa che bello se tu potessi raccontarci l’ultimo match fra Federer e Nadal, con quel pianto finale».
Federeriano o nadaliano?
«Federer è bravissimo, ma vedo anche la potenza che muove Nadal. Gli sport individuali sono straordinari. Poi pensi a Mourinho...».
Mourinho?
«Presuntuoso, ma sa mettersi in gioco. Abbiamo bisogno di figure così. La gioia di Usain Bolt, la litigiosità e la poeticità di McEnroe: il grande sportivo è un teatrante che sa trascinarsi dietro il nostro immaginario. E migliore è il nostro immaginario, migliore è la nostra vita».
Che tipo di film le piacerebbe fare?
«Mi piacerebbe raccontare il lato educativo, tecnico dello sport. Panatta spiega e ti fa venire voglia di giocare. Invece anche lo sport è reality, talk show. Allora meglio i servizi della vecchia Domenica Sportiva. Forse il rugby è lo sport che si salva di più».
Paolini...
«Con Paolini ti sembra di stare ancora sul campo, come quando il Toro ha vinto lo scudetto nel ’76: senti il rumore del pallone che impatta la scarpa. Quando torno a Torino dal treno vedo i vecchi campi, alla Falchera. Vorrei andare lì e censirli tutti».
Il Filadelfia?
«Abbandonarlo così è stata una stupidaggine. Certi stadi sono come teatri, hanno un’anima. Il Delle Alpi è il posto più insano di tutti i tempi, la gente non vede niente. Panatta mi racconta che discuteva, litigava con il pubblico. Quella cosa lì non esiste più. L’ho ritrovata nella semplicità del curling, durante i Giochi di Torino».
Troppo calcio, in Italia?
«La voracità del calcio ci ha levato tutto dallo sguardo. Peccato, perché il calcio è la nostra memoria. C’è un film su Gigi Meroni tratto da un libro, la farfalla granata, che nessuno riesce a realizzare. Io da piccolo abitavo vicino a piazza Vittorio, dove viveva Meroni. Un giorno andammo a suonare a casa sua, e lui, il mito, ci aprì. Io andavo a guardare i grandi giocare all’oratorio dell’Annunziata, e le porte erano sempre aperte. Oggi i calciatori non li conosci più, non li tocchi».
Un problema non solo dello sport.
«Siamo spettatori di troppo. Duecento canali, mille politici, non sappiamo più cosa vediamo. Panatta è diventato grande attraverso un percorso. Oggi si scoprono ragazzini ogni giorno, c’è una frenesia immorale».
Lei che tipo di tennista è?
«Autodidatta. Con un rovescio naturale».
Il Toro si salva?
«Non so più da quanti anni vedo le partite del Toro, la domenica pomeriggio, da solo. Spero che quest’anno si salvi. Ma sono un po’ disperato».