Fabio Mini, il Manifesto 22/3/2009, 22 marzo 2009
E PER LA PRIMA VOLTA LA MASCHERA DELLA PACE
La prevalenza della logica etnica e dei clan
In un libro intervista del 2003 l’ambasciatore statunitense Christopher Hill, uno dei protagonisti della vicenda del Kosovo e responsabile del fallimento diplomatico che portò alla guerra, pronuncia queste illuminanti frasi: 1) «ai diplomatici piace pensare di doversi occupare di questioni importanti. In realtà si occupano di questioni urgenti». 2) «Molto spesso si definiscono urgenti le questioni violente». 3) «Holbrooke (l’artefice di Dayton e del mostro istituzionale bosniaco) divenne (nel 1998) molto attivo nel cercare di convincere Washington che le cose in Kosovo erano gravi». La guerra del Kosovo di dieci anni fa sembra aver seguito il filo logico di queste parole che si possono leggere come una constatazione, una premonizione o un cinico piano nel quale la catastrofe umanitaria e la violenza servono a rendere le cose gravi e urgenti e quindi a giustificare qualsiasi intervento soprattutto se illogico, illegittimo e non risolutivo. Nel 1995 tutti sapevano che il Kosovo era altrettanto importante della Bosnia. Tutti sapevano che una soluzione doveva essere regionale e non cantonale. Eppure il Kosovo non fu incluso nei dibattiti di Dayton, con enorme disappunto dei kosovari che ci speravano, sia perché Milosevic difendeva la sovranità della Serbia, sia perché la questione non era «urgente». Vale a dire che non era ancora sufficientemente violenta. A Dayton fu però ribadito il messaggio già chiaramente lanciato da quanti, a partire dal 1991, si erano affrettati a riconoscere l’indipendenza dei nuovi stati balcanici: la politica internazionale prediligeva la prevalenza etnica, specialmente se coincideva con quella culturale e religiosa. Dal 1995 al 1998 in Kosovo si avviarono perciò molte iniziative per colmare la «lacuna» della violenza e per adeguarsi al criterio dominante. Il governo serbo s’impegnò nel trapianto in Kosovo dei serbi sfuggiti ai massacri dei croati e nella lotta ai «terroristi» albanesi, mentre i kosovari ricorrevano alla consulenza jihadista, al finanziamento tramite i traffici illeciti e alla diligente frequenza dei corsi di addestramento al combattimento generosamente offerti o finanziati dai servizi segreti di Stati Uniti e altri paesi europei. Ed è proprio nel 1998 che matura la violenza militare che consente ai diplomatici di occuparsi non di ciò che è importante ma di ciò che «finalmente» è urgente. Considerando ciò che è seguito, i massacri, le pulizie e contropulizie etniche, le vittime della guerra e la resa dei conti, la guerra del Kosovo non appare dissimile da tutte quelle balcaniche in cui i pretesti e gli attivismi diplomatici sono spesso serviti a far precipitare gli eventi e ad avviare improbabili esperimenti sociopolitici. Ma il Kosovo è molto di più e la differenza si vede dagli sviluppi post-bellici. In quest’ultimo decennio il Kosovo è stato costruito come un «non-stato» su base monoetnica, sottratto ad una legittima sovranità nazionale, finanziato e occupato da forze internazionali che non devono interferire con gli affari locali, legali o illegali. Chiunque si sia opposto a questa costruzione è stato minacciato, eliminato o considerato un criminale e chiunque ne abbia favorito la realizzazione è stato ben retribuito e perfino premiato. L’esempio del Kosovo è diventato il paradigma della prevalenza della logica etnica e dei clan su quella dell’ordine e della sovranità degli Stati. In questo senso ha compromesso il principio fondante delle Nazioni Unite. Inoltre, il Kosovo ha dimostrato di essere il primo esempio di una guerra moderna particolarmente subdola e violenta: la guerra che non finisce mai, che si maschera da operazione di pace; la guerra che non tende alla vittoria e alla stabilità, ma alla realizzazione dell’entropia, del collasso organizzativo e delle istituzioni; la guerra che determina il crollo dei criteri fondamentali della politica internazionale e della stessa etica politica. Il Kosovo è riuscito a dare un nuovo significato alla balcanizzazione , ancora legato alla faida, ma connesso con l’asimmetria istituzionale che consente la rottura degli equilibri interni ed internazionali, l’alterazione del bilancio dei poteri e della condivisione delle responsabilità. Il Kosovo dovrebbe essere un esempio negativo ed insegnare nuove filosofie e approcci ai problemi internazionali, ma non si percepisce né la volontà d’imparare né quella di cambiare. I fautori e fiancheggiatori di questo Kosovo ne sono orgogliosi e lo sostengono. La dinastia Clinton che arrivò alla guerra gestisce quella diplomazia che prima d’intervenire deve assicurarsi che le cose siano urgenti . Holbrooke è inviato speciale per l’Afghanistan e il Pakistan e il suo pupillo Hill è responsabile dell’are a Asia- Pacifico e sarà prossimo ambasciatore in Iraq. Tutte aree in cui c’è bisogno di tutto tranne che della loro urgenza.