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 2009  marzo 21 Sabato calendario

IO, GRAN BUGIARDA DA 80 ANNI"


Il biglietto bisognerebbe pagarlo almeno doppio se non triplo solo per essere ammessi al suo camerino. Quello che trovi, alla sottrazione di tutto, è un guscio d’uomo in tweed chiaro e papillon, alto, elegantissimo, che contempla più divertito che stupefatto la neve sul Vesuvio. Magnifica resonance, il guscio, per una voce ancora ferma, «anche se col tempo ho perso un’ottava», a cui daresti volentieri il compito di parodiare la fine del mondo e di stilare la lista dei «carini» e dei «birichini» il giorno del Giudizio, qua e là civettuolo intramezzando «Ba-ba-baciami piccina con la bo-bo-bocca piccolina, dammi tanti baci in quantità». Uno che vive «i suoi giorni modesti», tutto beato e sobrio nelle sue faccende. Versione riveduta e scorretta della gozzaniana signorina Felicita «in fuga dalle stanze morte» che, intirizzita e stanca, non vede l’ora di andare in scena per indossare finalmente lo scialle che le spetta. Insiste Paolo Poli, a ottant’anni e sessanta di teatro, nel piacere di travestirsi, a «simulare una dignità persa dalla nascita». «Ho qui la vestaglia, ora mi spoglio ma non ti fo vedere, perché un tempo, diceva la Borboni, avresti fatto oh!, e ora faresti uh!...». In viaggio per l’Italia con «Sillabari» da Goffredo Parise, intercettato al «Bellini» di Napoli, il teatro storico della prima italiana della «Carmen» nel 1879, dove sono passati tutti, ma proprio tutti, da Jean Moreau a Lindsay Kemp, dai fratelli De Filippo a Carmelo Bene.
«Siamo tutte delle gran bugiarde» è il titolo del suo testo di memorie e sarcasmi.
«Che vuoi...E’ venuto da me questo ragazzo garbato, carino, sai quell’incanto che hanno i provinciali, che parla senza urlare, perché tutti ormai si conformano. Così come le donne degli anni Trenta si pettinavano alla Greta Garbo, tutti urlano oggi come se vendessero un oggetto, Wanna Marchi insegna».
Una rarità, un libro firmato Paolo Poli.
«Io non so scrivere. Non posso scrivere "L’educazione sentimentale", non so scrivere a quel modo e quindi non scrivo. Non si può far tutto nella vita. Io sono superficiale, frivolo e quindi mi va bene così».
Racconta che il suo primo amore a cinque anni è stato King Kong.
«Qualcosa devo pur dire. Sono della generazione dei Carmelo Bene, uno che aveva capito che il Novecento era il secolo del paradosso. La parola è importante. La radio per me è ancora la voce di Mussolini. Eravamo tra i pochi ad avere una radiolina a tre valvole e sulle strade gli altoparlanti mandavano forte questa voce del tiranno che emozionava. Coniugava come i negri all’infinito "credere, obbedire e combattere" e funzionava moltissimo».
I politici di oggi, dal punto di vista della retorica e della presa sulle folle?
«Non c’è paragone. La letteratura scarseggia, il cartaceo è sempre meno apprezzato e qualsiasi aggettivo dici va bene. Noi avevamo avuto D’Annunzio, a me non simpatico per via del fascio, però che fastosità, che ridondanza e quanto ha lavorato...Uno che viveva al di sopra dei suoi mezzi».
A proposito di paradossi, la neve sul Vesuvio.
«Napoli mi piace, una città dove ti rubano la valigia ma ti danno il cuore. In teatro sono venuti i bambini di una scuola... Cosa da raccontare? Nulla. Il giovane non deve chiedere consigli ai vecchi, i vecchi rimbecilliscono, non è vero che sono saggi. La fortuna di Raffaello, Mozart o Leopardi è stata di morire giovani, chissà quali coglionerie in vecchiaia avrebbero fatto...Io sono sempre stato vecchio, era la bellezza effeminata che mi faceva sembrare più giovane».
Montgomery Clift aveva una passione per gli anziani. Li andava a rimorchiare nei parchi e nelle stazioni.
«Avrà avuto i suoi problemi, gli sarà mancato il padre. Mio padre è morto, ma me lo sono goduto moltissimo perché si ammalò di tubercolosi e sono stato un anno intero con lui sul lago di Como a respirare le arie balsamiche».
Teatro esaurito ogni sera, nonostante la concorrenza di festival e reality.
«Una volta arrivai a Benevento con la mia "Caterina De Medici". Il ragazzo del bar mi fa: "Guardi che è sbagliato il manifesto, si chiama Mita Medici, non Caterina Medici". Ieri son venute due bimbe di una radio e, a proposito dell’omosessualità, non m’hanno chiesto "Le fanciulle in fiore" di Proust, ma di Luxuria e Platinette, che io non conosco. Il pubblico televisivo è pantofolaio. Per andare a teatro ci vuole una modestia di vestirsi a quell’ora, uscire col freddo, col buio, le intemperie, mangiare in fretta oppure dopo».
«Il teatro allunga la vita» garantisce lo spot ministeriale che passa di questi tempi in tivù.
«Non sono i burocrati che fanno nascere il genio. Il genio nasce dove e quando vuole. Orson Welles dice ne "Il terzo uomo": "In Italia c’erano le guerre, la fame e c’è stato Raffaello, c’è stato Michelangelo. Qui in Svizzera c’è stata sempre la pace e cosa avete inventato? L’orologio a cucù».
Ce ne sono di magnifici vegliardi a teatro, a parte Paolo Poli. Mario Scaccia, Giorgio Albertazzi, Arnoldo Foa.
«E Ferruccio Soleri. Uomo straordinario. Ha un anno più di me e fa ancora la capriola di Arlecchino. Arnoldo Foà l’ho incontrato in un ristorante che si abbuffava felice. Scrive delle commedie, Dio solo lo sa cosa c’è dentro. Come gli ebrei veri consumano tutto fino in fondo. Come Moravia, di cui nessuno parla più perché fa vecchio, non fa antico. Invece era una persona adorabile. Ci si vedeva alla sua casa al mare, con la Laura Betti, Pasolini, i due Bertolucci, Bernardo e Giuseppe, che è stato per un periodo anche mio cognato, sette anni con mia sorella Lucia. Ma questo non importa, le mie trombate le racconto, quelle degli altri non interessano».
Diceva di Moravia.
«Mi confidava: "Questa non vuole dormire con me". Parlava di Dacia, la figlia di Fosco. "Io le pigliavo un piedino e così mi addormentavo". L’ultima nemmeno voleva dormire con lui. "Però quando esce dalla doccia che le vedo le goccioline sul seno..". Moravia sapeva che il vecchio è guardone, la porcelloneria non si spenge mai, rimane. Il sesso è nel cervello, non è tra le gambe...».
L’inventario del genio teatrale del Novecento?
«Io rubavo più dalle donne che dagli uomini. Rina Morelli la trovavo un genio. Era tutta nei toni dimessi e Visconti la infilava sempre anche quando non c’entrava. La Duse era straordinaria. Quando in compagnia aveva un Armando un po’ fasullo, lei entrava e gli mangiava la scena solo con i gemiti... Perché la Traviata l’è una troia, allora bisognava farlo capire. Entrava in scena e scalciava le scarpe come una donnaccia, si buttava sul divano col culo a piombo, si scioglieva i capelli e se li asciugava col caminetto dipinto. Donne straordinarie».
Quando Fellini le propose una parte nella "Dolce vita".
«Avevo fatto la televisione negli Anni ’60. Lui mi telefonò offrendomi una particina. Gli dissi: "No, io faccio il teatro. Mi piace il teatro e l’applauso è la paga vera di un artista. Non ci sono soldi che equivalgano. Quando arrivo in provincia e le vedo così incattivite che dopo un po’ mi ridono, che gioia, mi dico, l’ho fatto venir duro a qualcuno. Per questo il sesso m’interessa molto meno».
Da quando?
«L’ho sempre fatto per scherzo il sesso. Ho avuto anche delle donne da giovane perché sai che viene duro più facilmente, ma di sentimenti profondi ho provato solo l’amicizia io».
Cosa d’interessante nel mondo circostante?
«"Ormai ne vedo poco di mondo. Fosse per me, non farei che dormire, perché i vecchi sono come i bambini. I bambini ciucciano e dormono perché devono crescere e i vecchi si riposano perché si preparano alla tomba serenamente. Ho fatto il mestiere che mi piaceva, non ho paura della morte».
I pensieri cattivi non s’impongono dalle sue parti?
«Casomai, le paure infantili. La paura del buio o la curiosità di vedere se viene il diavolo. Da bambino stavo sempre allo specchio, perché le suore dicevano: "Non state troppo allo specchio, che viene il diavolo". E io allora lo fissavo questo specchio, finché mi veniva un lampo negli occhi e capivo che il diavolo ero io. Importantissimo l’insegnamento delle monache. Anche i preti pedofili volevano bene al bambino anche se gli toccavano un po’ il culo. C’è sempre un momento nella vita di confusione sessuale e di curiosità».
A Roma incrociò quella diavolessa di Laura Betti.
«La conobbi in casa di Zeffirelli, che ora abita fuori Roma sulla via Appia e si muove solo con la sua corte. Io invece ho continuato con le mie abitudini di piccolo borghese, sto sempre da solo. Non ho la tata o la cuoca affezionata. Mangio nei ristoranti o vo dalla mia sorellina Lucia che per me è come un figlio, perché quando io avevo vent’anni lei ne aveva nove. Le facevo i compiti, l’accompagnavo a scuola».
Con la Betti andavate insieme a fare conquiste.
«Si faceva per scherzo. Una volta s’incontrò dei marinai che c’invitarono in pizzeria e ci pagarono una pizza. Eravamo povere ma belle e bionde e si andava a fare il bagno nel Tevere, quando non c’erano i topi».
Amplessi memorabili?
«Ricordo uno che si levò le scarpe e partirono dei raggi di profumi esotici, come dalla grotta di Massabielle. Sicchè ci prese il ridere. Se poi li lavi con l’acqua si sprigiona ancora di più l’elisir...Però, la cosa che affascina è sempre l’età evolutiva. Pasolini amava il "buon selvaggio?" perché già Jean Jacques Rousseau aveva raccontato l’Emilio. Sai, vedere un albero che mette i fiori....».
Ci va ai funerali dei suoi amici?
«I funerali non mi piacciono. Bisogna trattar bene le persone finché son vive. Poi, se li bruciano o se li scavano poco m’importa. Una volta rimasi un po’ scandalizzato nel vedere al "San Ferdinando" una lapide con dedica dei fratelli De Filippo: "Ciccillo che lavorava umile chiodo su chiodo". Facevano meglio a dargli la mancia quando era vivo piuttosto che la lapide dopo morto. So che i due erano piuttosto economi...».
Da peccatore mai pentito, il peccato imperdonabile?
«Annoiare a teatro. Ma anche questo l’aveva già detto Oscar Wilde».