Mario Margiocco, Il sole 24 ore 22/3/2009, 22 marzo 2009
UN SALVATAGGIO DA 23 MILA MILIARDI
In un colpo solo la Federal Reserve ha aumentato del 10% i fondi disponibili per contrastare la crisi finanziaria e rilanciare l’economia. I 1.150 miliardi di dollari aggiuntivi che, è stato annunciato mercoledì 18, entreranno in circolo si aggiungono infatti a 11.700 miliardi messi già sul tavolo dal Governo americano per superare un periodo di eccezionale gravità (in attesa di quelli annunciati domani dal segretario al Tesoro Timothy Geithner). La cifra è calcolata da Bloomberg. Washington sta mobilitando risorse pochi mesi fa impensabili. I soli nuovi fondi Fed, 300 miliardi per l’acquisto di T bonds e il resto per rilevare titoli immobiliari (mbs) delle finanziarie pubbliche Fannie Mae e Freddie Mac, equivalgono a poco meno del doppio del costo della guerra in Vietnam, calcolato in dollari rivalutati, e che fu pari a poco più di 698 miliardi di dollari attuali.
Come in Europa e in Asia, si tratta di risorse pubbliche di varia provenienza e gestione, che hanno grossomodo tre emittenti principali: il bilancio statale, la Banca centrale, gli enti di garanzia dei depositi bancari. Solo in parte minore sono a fondo perduto, come i piani di stimolo da poco varati da alcuni Paesi, e convogliati negli Stati Uniti nel piano da 787 miliardi approvato definitivamente dal Congresso un mese fa. Gli stessi interventi su banche o società come Aig, sono fatti negli Stati Uniti, e anche in Europa, contro il passaggio di azioni ordinarie o privilegiate o comunque con titoli in garanzia, nella speranza che consentano in futuro di recuperare l’esborso. Diverso il caso di acquisto di titoli tossici, cosa per cui gli Stati Uniti hanno stanziato finora 700 miliardi per circa la metà utilizzati: qui non si saprà ancora per parecchio tempo quanto valgono i titoli.
Le voci più grosse sono comunque quelle degli interventi delle Banche centrali e dei fondi di garanzia sui depositi. Sommando i dati - piuttosto dettagliati - americani, quelli europei - un po’ meno chiari - e stimando un intervento asiatico (e australiano/neozelandese) di portata non inferiore a quello europeo, soprattutto grazie alla componente cinese e giapponese, si arriva a una cifra di circa 23mila miliardi di dollari, per oltre la metà americani. E non è finita, perché qualcuno dovrà colmare il buco delle banche statunitensi, valutato a non meno di duemila miliardi. E anche in Europa nessuno sa se il salvataggio bancario è finito. La seconda guerra mondiale, di gran lunga lo sforzo finanziario più grosso mai affrontato dagli Stati Uniti su un singolo obiettivo, costò sui due fronti dell’Europa e del Pacifico 3.600 miliardi di dollari, rivalutati a oggi. Il New Deal, 500 miliardi.
La cartina in pagina (sulla base di dati aggiornati di fonte Fondo monetario/Brookings Institution) presenta una parte non secondaria, ma quantitativamente limitata di questo sforzo finanziario, i piani di stimolo messi in atto dai Paesi del G-20, Spagna compresa. Non i fondi per far fronte alle perdite, ma quelli per rilanciare la crescita. La Germania mette in atto un intervento non lontano da quello americano in rapporto al Pil, mentre Francia e Italia hanno pacchetti assai più contenuti. Nel caso italiano, tuttavia, occorre tenere conto di altre misure che, non essendo assimilabili e omogenee, non sono state conteggiate, ma esistono.
Lo stesso vale per alcuni altri Paesi, come il Giappone e la Cina, che hanno presentato come piano di stimolo un pacchetto molto più consistente, solo in parte però valutato dall’Fmi come vero stimolo. Tokyo arriverà al G-20 il 2 aprile a Londra con un secondo piano aggiuntivo, è stato annunciato, non ancora quantificato; a dicembre se ne parlava già e il Governo lo valutava a oltre 350 miliardi di dollari. Il Giappone ha quasi 20 anni di piani del genere alle spalle, data la sua lunghissima crisi.
I calcoli Fmi/Brookings (che considerano non i valori nominali, ma in base alla parità di potere d’acquisto), arrivano, per i Paesi del G-20, a poco meno di 1.600 miliardi. «Di questi, 692 vengono spesi quest’anno», dicono Eswar Prasad e Isaac Sorkin della Brookings. «Si tratta dell’1,4% circa del Pil del G-20 e di poco di più dell’1,1% del Pil globale». Gli altri fondi sono per il 2010. L’Fmi ha chiesto a più riprese una spesa pari al 2% del Pil.
Gli Stati Uniti premono perché l’Europa faccia di più. L’Europa risponde che ci sono circa 260 miliardi di dollari di spesa aggiuntiva legata alla crisi e coperta dagli "stabilizzatori automatici", come la cassa integrazione e i sussidi di disoccupazione, più generosi e soprattutto più duraturi che negli Stati Uniti. Questo fa lievitare lo stimolo europeo, in sede G-20, ben oltre i 274 miliardi ufficiali di Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia e Spagna. Se si aggiungono poi Olanda, Belgio, Svezia e altri lo sforzo europeo non è molto inferiore a quello americano.
L’Europa insiste, e a ragione, perché al G-20 si decidano regole comuni, e severe. Su questo emergono le contraddizioni americane. Washington prende tempo sulle regole. Ha affidato l’economia a due esponenti, il consigliere del Presidente, Lawrence Summers, e il ministro del Tesoro, Timothy Geithner, sensibili al tentativo di Wall Street di salvare quanto più possibile della finanza innovativa. Che non va buttata a mare, ma messa in condizione di servire senza nuocere.
In Europa, l’impegno complessivo vede la componente più consistente nei circa 3.100 miliardi di garanzie bancarie. C’è poi una seconda voce importante, solo stimabile, e che comprende la liquidità extra tuttora in circolo ed altri interventi di sostegno della Banca centrale europea. Infine aggiungendo il piano di stimolo, i 400 miliardi di ricapitalizzazione bancaria e altre voci si arriva a un’ordine di grandezza attorno ai 5mila miliardi.
Analogo lo sforzo asiatico e dei Paesi australi, con i 586 miliardi di dollari di interventi vari annunciati dalla Cina e altri investimenti, l’immissione di liquidità, le garanzie. L’impegno globale, nel mondo, sotto tutte le voci, è quindi attorno ai 23mila miliardi. Negli ultimi 18 mesi, ha ricordato Summers nei giorni scorsi parlando a Washington, la ricchezza mondiale di famiglie e imprese ne ha persi 50mila.