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 2009  marzo 23 Lunedì calendario

POVERI E IMPAURITI


Il problema è stato posto in modo solenne dal presidente Napolitano nel discorso di fine anno: fare della crisi un’occasione «per rinnovare la nostra economia» e anche per modificare certi stili di vita «poco sensibili alla sobrietà e alla lungimiranza». A molti sono tornate alla memoria le parole pronunciate da Enrico Berlinguer nel 1977 a proposito dell’austerità. Altri hanno letto nel discorso del presidente un’eco delle teorizzazioni di Serge Latouche sulla decrescita. Di certo – suggerita da una ritrovata lungimiranza o imposta dalla necessità – la ”sobrietà” è tornata di moda. E con essa le ricette dell’economia di guerra, i calzolai, le sartine, gli artigiani capaci di aggiustare le cose o di rinnovarle e la memoria remotissima di un certo costume condiviso che considerava sacrilego lo spreco del pane e semplicemente sciocco il seguire l’ultimamodao mangiare frutta fuori stagione. Ma quando la ”sobrietà” è finita? Ne abbiamo parlato con Guido Crainz, docente di storia contemporanea all’Università di Teramo, autore, tra l’altro, della ”Storia del miracolo italiano” (Donzelli, 1997), uno studio sulla trasformazione del paese tra gli anni Cinquanta e Sessanta, e del ”Paese mancato” (Donzelli, 2003), un saggio che ricostruisce la fase successiva, fino al delinearsi della crisi della Prima Repubblica. stato allora, col boomeconomico, che la sobrietà è morta? «Credo che possiamo fissare due momenti attorno ai quali ragionare: uno è, appunto, quello del cosiddetto ”miracolo economico”, che viene convenzionalmente collocato tra il 1958e il 1963, l’altro è quello cominciato con gli anni Ottanta. Di certo, in queste due fasi gli stili di vita sono stati caratterizzati da una crescita dei consumi, da una propensione al superfluo. O dall’affermarsi di nuovi bisogni. Il punto è stabilire se possiamo parlare di abbandono della sobrietà. O se, invece, non sia meglio usare un’altra definizione come, per esempio, ”frugalità”. Da parte mia credo che, almeno per quanto riguarda gli anni del dopoguerra, sia questa la più appropriata». Che differenza c’è? «La differenza è che la frugalità nasce da una condizione materiale, la sobrietà da un sistema di regole condivise, da una gerarchia di valori. Se guardiamo gli anni prima del boom, abbiamo il quadro di un paese che esce molto lentamente, più lentamente del resto dell’Europa, dal dopoguerra. Basti pensare, tanto per fare un esempio, che solo nel1955 siamo arrivati aunconsumo di carne uguale a quello che veniva registrato negli anni precedenti il conflitto mondiale. E ancora all’indomani della guerra in molte aree agricole le retribuzioni erano erogate, almeno parzialmente, in natura. Il miracolo economico irrompe violentemente in quella società ancora arretrata: la soddisfazione di antichi bisogni coincide con la possibilità di nuovi consumi. Diciamo che arrivano assieme la fettina e il frigorifero». E i soldi da spendere. «I soldi da spendere, certo. Ma forse, prima ancora, l’idea di poterli spendere. L’idea di poter accedere a una serie di beni di consumoche fino a poco tempo prima erano inarrivabili. C’è un ricordo di Giorgio Armani che sintetizza molto bene questo passaggio. Racconta dell’ingresso nella sua casa della rivista ”Quattroruote”. La acquistava il padre che ancora non sapeva guidare». Unaperfetta metafora della ”fine della sobrietà”. «Di certo in quegli anni la radicalità e l’importanza del mutamento in atto furono avvertite pienamente. Italo Calvino scrisse per ”Il Contemporaneo” un articolo che individuava nella televisione e nello scooter i vettori della trasformazione che stava attraversando il mondo rurale, la parte del paese dove il mutamento era stato più brusco. Ecconeun passo: ”Anche nelle cascine più vicine ai nostri paesi, se lo stato delle strade lo permette, le famiglie dei salariati, anziché riunirsi la sera alle stalle, come è costume, si recano al più vicino locale con la televisione”. Sa che anno era? Il 1954». La Rai aveva appena cominciato a trasmettere. «Sì. E già c’era chi avvertiva che la violenza del mutamento in atto trovava un paese impreparato. Cadevano le vecchie regole, cambiavano i costumi, senza che però altre regole e altri stili venissero a sostituirli. Il progetto del centrosinistra, probabilmente una delle cose più serie della storia italiana del dopoguerra, nacque proprio da questa consapevolezza. Ugo La Malfa individuò il problema con lucidità e precisione assolute. Nel 1962, da ministro del Bilancio, scrisseuna ”nota aggiuntiva” alla relazione generale sulla situazione economica dove evidenziava il contrasto tra quel progredire tumultuoso e il permanere nel paese di gravi situazioni settoriali e locali di arretratezza e sottolineava i limiti di uno sviluppo veloce ma spontaneo, legato alle scelte autonome del mercato. Ma diceva anche che quello era il momento di intervenire perché solo in una fase di forte dinamismo è possibile modificare il meccanismo economico senza affrontare costi troppo elevati». L’eterno problema delle regole e della nostra debole considerazione della cosa pubblica? «Sì. Si trattava di darci delle regole moderne, masoprattutto di darci delle regole. Purtroppo si era costretti a farlo,comedisse Riccardo Lombardi, in una condizione molto complessa: era come percorrere una strada accidentata con una macchina rotta e dover cambiare i pezzi durante la corsa. Il progetto fallì». Poivenneroil ”68, lastagione deigrandimovimenti, gli anni Settanta. Allora ci fu un rifiuto del consumismo. Un ”ritorno alla sobrietà”? «Non mi spingerei fino a tanto. La ”sobrietà” – se la intendiamo come uno stile di vita coerente con una libera scelta – fu un affare di gruppi, di élites ideologiche. Non fu un fenomeno di massa. Gli anni Settanta sono stati quelli della politicizzazione esasperata, mala ”Febbre del sabato sera” è già del 1977. Più che di sobrietà parlerei, se vogliamo guardare a tutto il paese e non alle sole élites, di cupezza, di paura. Mi riferisco all’atmosfera degli anni di piombo». Eppure nel decennio successivo si tornò al consumismo sfrenato, allo spreco. Se non finì la sobrietà, cosa finì? «Finì, appunto, il terrorismo e si diffuse la voglia di dimenticare. Ma di nuove regole non ce n’erano ancora e quelle antiche erano ormai lontanissime. Quanto alle élites, gli anni Ottanta segnarono la fine delle aspettative politiche e culturali sulle quali avevano investito tanto. E’ un fenomeno che possiamo seguire anche in tanti percorsi individuali. Per esemplificare: dalla parrocchia alla militanza, dalla fine della militanza a un’immersione nell’’effimero”, almeno per un po’». Oai consigli d’amministrazione. Avolte, dalla militanza a Tangentopoli. «Il fatto è che non condivido il presupposto: cioè non credo che abbiamo mai ”perduto la sobrietà”. Abbiamo avuto, nel nostro dopoguerra, dei momenti nei quali i consumi erano minori, gli stili di vita più frugali. Ma non perché fossimo ”sobri”. Eravamo poveri. O tristi e impauriti. E, francamente, credo che anche oggi quei segnali che vengono letti come ”ritorno alla sobrietà” appartengano, fatte le solite sporadiche eccezioni, alla categoria della necessità. Abbiamo perduto un’altra occasione col primo governo Prodi, cioè con il miglior governo degli ultimi anni. riuscito a portarci in Europa, ma non è stato capace, proprio come il centrosinistra degli anni Sessanta, di cambiare il paese. In definitiva, non è stato in grado di creare un sistema di regole, una gerarchia di valori condivisi. Sa quale fu uno dei più gravi fallimenti del primo centrosinistra? La legge urbanistica. Incontrò durissime resistenze: si sostenne che avrebbe bloccato l’economia. Il tentativo di introdurre una normativa rigorosa fu travolto in modo plebiscitario. Si decise di varare una legge-ponte,mala sua entrata in vigore slittò di un anno, e in quell’anno gli abusi edilizi proliferarono. Le ricorda qualcosa?».