Andrea Nicastro, Corriere della sera 20/3/2009, 20 marzo 2009
GLI ITALIANI IN AFGHANISTAN: PIU’ SOLDATI, MENO SPESE
Quando nella Base italiana di Herat si sale su un Lince, una jeep blindata, il capo-macchina avvisa: «Nel caso il mitragliere cominciasse a sparare, non c’è da preoccuparsi... è una normale procedura Nato per allontanare le auto-bomba».
Dimenticate i sorrisi ai bimbi, le distribuzioni di aiuti alle folle, le strette di mano, le passeggiate nei bazar. I soldati italiani che oggi escono dai nostri fortini vedono l’Afghanistan solo al di là di un vetro blindato, nel mirino di una mitragliatrice o sullo schermo di un aereo-spia. La vita dei nostri militari va difesa, anche a costo di sparare nel traffico, ma farlo sarà sempre più difficile. Da una parte perché Washington chiede meno prudenza e più disponibilità a combattere, ma soprattutto perché se non siamo noi a cercare i talebani, saranno i fondamentalisti a trovare noi.
«Il 2009 sarà un anno difficile malgrado i 17 mila soldati di rinforzo del presidente Obama». Parole del generale David McKiernan, l’uomo che comanda tutte le forze internazionali in Afghanistan indipendentemente dal cappello che portano: Isaf, Nato o Usa.
In Italia la politica discute su quanti militari in più inviare per accontentare la Casa Bianca. L’annuncio parla di un «surge» temporaneo di 200 uomini in vista delle elezioni presidenziali di agosto, ma importante, in tempi di recessione globale, è non aumentare i costi. Roma per i suoi 2800 soldati spende già mille euro al minuto. In un anno si viaggia sul mezzo miliardo. Senza annunci, gli Stati Maggiori sembrano aver elaborato una risposta da equilibristi in quattro punti che, se è vero che aumenta i rischi, ha il pregio di non pesare sul bilancio. Primo: più «addestratori» che nella contabilità della Nato valgono ciascuno quanto 10 soldati «normali ». Basterà portarne 50 e a Bruxelles conteranno 500, ma a piè di lista Tremonti pagherà la stessa cifra di oggi. L’obbiettivo non è tanto di migliorare le capacità dei colleghi afghani, quanto guadagnare la scusa legale per seguire i soldati di Kabul in combattimento. Un addestratore ha a disposizione molto più del suo fucile: ha la radio. E attraverso la radio l’aviazione. Per questo dal 2008 l’Italia ha portato in Afghanistan aerei da caccia Tornado e elicotteri d’attacco Mangusta. Con i nostri addestratori al seguito delle truppe afghane, Tornado e Mangusta possono combattere dal cielo senza che cambi il mandato Onu. Secondo: a parità di truppe lo Stato Maggiore tenterà di cambiare il rapporto tra «combattenti» e no: ora nei 3.000 soldati di varia nazionalità alle dipendenze del comando italiano di Herat ce ne sono solo 600 «combattenti » tra italiani e spagnoli. Con l’arrivo ad aprile di una brigata di paracadutisti ci saranno meno uomini al riparo nei fortini e più gente esposta al fuoco. Almeno 400 in più, da quanto è dato sapere. Terzo: le basi avanzate aumenteranno da tre ad (almeno) quattro. E’ l’idea del generale David Petraeus, l’eroe dell’Iraq: «Non si combatte una guerra di contro-insurrezione facendo i pendolari». Bisogna essere vicini ai luoghi bollenti, conoscere ogni curva, ogni roccia e, se possibile, le dinamiche sociali per convincere qualche «cattivo » a cambiare posizione. Ma è chiaro che cento poveretti in un fortino in mezzo al nulla rischiano più di mille in una mega base. Quarto: aumentare l’uso della forza aerea senza aumentare i costi. Gli elicotteri passano da 13 a 16 in protezione di truppe più mordaci quanto vulnerabili, ma si risparmierà riducendo le ore di volo per i trasferimenti. I Tornado avranno base a Herat (e non più a Mazar I-Sharif), mentre gli elicotteri avranno due eliporti operativi a Sud e a Nord vicino ai soldati più esposti. Gli italiani, fino ad ora, sono stati, per quanto possibile, prudenti. Hanno combattuto soltanto le forze speciali o le scorte dei convogli costrette a rispondere al fuoco. Accompagnando i soldati afghani al fronte, aprendo fortini nel bel mezzo di aree talebane, le cose cambieranno. L’Afghanistan è una polveriera e 2800 italiani ci sono dentro.
Il Direttorato dei servizi segreti americani (un gradino sopra la Cia) ha azzardato dei numeri: «Solo il 30 per cento del territorio è sotto il controllo del governo di Kabul ». Ma il pantano si misura anche camminandoci dentro. Sicurezza? All’inzio di febbraio il centro della capitale afghana è stato assaltato in simultanea da tre commando armati che hanno tenuto in scacco la città per ore. Il favore della popolazione? I bambini tirano sassi contro le nostre pattuglie. Non sempre e non ovunque, ma è il segno che l’influenza talebana sta raggiungendo anche le «nostre» aree. I fondamentalisti uccidono chi collabora con gli «infedeli» e i bimbi hanno il compito di mostrare da che parte sta la famiglia.
Gli attacchi degli «insorti» aumentano (nel 2008 più 134%), come i bombardamenti Nato e le vittime civili (ormai 180 al mese, con un incremento rispetto all’anno prima del 40%). Nella regione «italiana» di Herat tra gennaio e febbraio gli «atti ostili» contro forze governative o internazionali si sono impennati del 50%. Il nuovo ambasciatore italiano a Kabul ha «invitato » le nostre Organizzazioni non governative a lasciare un Paese troppo pericoloso. La risposta è stata «no», ma è l’indicatore del continuo deterioramento.
Che cosa non sta funzionando? Prendiamo la «nostra » Herat. Lì, al confine con l’Iran, il generale italiano Paolo Serra comanda 3.000 soldati (di cui 1.500 italiani) per controllare un’area grande come l’intero Nord Italia da Torino a Trieste. A questi bisogna aggiungere soldati americani che agiscono fuori dalla catena di comando Nato, più 4.500 soldati afghani e un migliaio di poliziotti. In totale 10mila uomini. Pochi. All’epoca dell’invasione di Mosca, sovietici e collaborazionisti erano dieci volte più numerosi, ma anche quelli non bastarono. Non potranno mai bastare sino a che non cambierà l’economia afghana.
Nella zona di competenza italiana esistono enclavi vietate al governo, villaggi dove comandano i clan, le tribù, le shure (assemblee) tenute coese da matrimoni consanguinei, nemici comuni e interessi illegali. A tradurre con un vocabolario che ci è più familiare, si può parlare di controllo mafioso del territorio con padrini e cupole. Sotto il cappello di questo sistema agiscono contrabbandieri di oppio e di persone, rapinatori, taglieggiatori, mercenari al servizio di talebani e, pochi, veri fanatici islamisti. Spesso, essere contro o a favore del governo non è una questione di idee, ma di convenienza dato che, dopo 30 anni di guerra, l’unico attrezzo che permette di guadagnarsi da vivere è ancora e sempre il kalashnikov.