Gabriele Beccaria, La stampa 20/3/2009, 20 marzo 2009
LA DOTTORESSA HOUSE
Quando Nathaniel incontrò il Dr. House, non era in grado di connettere.
Era prigioniero del proprio corpo, che non rispondeva più ai comandi. I dolori lo bloccavano, la febbre non scendeva, il fegato era andato. In gergo si dice che non produceva più i fattori della coagulazione. Il rischio emorragie era continuo, tanto che le retine erano sul punto di andare in tilt. I medici, che da quattro settimane lo studiavano, stavano perdendo le speranze.
Quando House incontrò Nathaniel, fu assalita da un flash: quel giovane padre era di Pittsburgh, la stessa città dove si era specializzata anni prima, e - dice adesso - «provai per lui un’istantanea simpatia». Le vite di Nathaniel e di House stavano per cambiare.
Ora House mi parla dall’ufficio con vista sui grattacieli e si emoziona all’idea di essere considerata l’incarnazione di un’icona da telefilm-culto. Il dottore è un dottoressa. Non è americano, ma italiana. Non ha il bastone. Non lancia sguardi beffardi. Ha capelli neri e lunghi, due figli e un marito, anche lui medico, e il batticuore di un’improvvisa celebrità.
Da quando il New York Times l’ha elogiata con un reportage sui «medical detectives», i medici che risolvono i casi impossibili, è entrata in un’esistenza di specchi. «Sono imbarazzata dalla notorietà, perché arriva non per quello per cui lavoro, ma per aver risolto una malattia che non avevo mai visto. Spero però che questo caso riveli la mia personalità: la tenacia, la curiosità, l’entusiasmo e la felicità di salvare una vita. Spero di ispirare qualche giovane. Soltanto questo mi renderebbe orgogliosa».
Il Dr. House del mondo reale si chiama Maria Lia Palomba. E’ una quarantenne, dotata della simpatia di cui l’alter ego è privo, e lavora al Memorial Sloan-Kettering di New York, uno degli ospedali oncologici al top. Lavora vuol dire che fa ricerca in laboratorio e cura i malati, intrecciando due professioni che in genere negli ospedali italiani sono tenute a distanza. Look e carattere a parte, è un perfetto Dr. House, perché condivide lo stesso metodo: trasformare interrogativi astrusi in ipotesi e le ipotesi in soluzioni coraggiose. Se il presidente Obama ha detto che «non vuole più sentire la parola ”incurabile”», forse pensava all’habitat della dottoressa Palomba.
Mentre Nathaniel agonizzava come un perfetto mistero (perché stava così male, se il suo linfoma era stato dichiarato in remissione sei mesi prima?), lei è ripartita da zero. «In effetti - racconta - il linfoma non c’era più e, per prendere tempo, veniva trattato con steroidi. Non restava che studiarsi la cartella da zero»: esami radiologici, test del sangue, biopsie di midollo e fegato. Ai colleghi doveva essere sfuggito qualcosa. E gli indizi disordinati cominciano a prendere un ordine. La ferritina, i valori di ferro, sono 100 volte oltre la norma. I globuli bianchi e rossi ai minimi. I trigliceridi altissimi. Finché, andando e tornando dal laboratorio di patologia, appaiono due istiociti, cellule diventate iperattive che si erano divorate i globuli rossi».
Due cellule separavano la vita e la morte. «Con i miei studenti ci siamo convinti che si trattasse di HLH, la linfoistiocitosi emofagocitica, una malattia rara, che avevo solo studiato sui libri e che colpisce in genere i bambini». Anche le indagini su Internet stavano facendo la loro parte, finché dal Texas, dove c’è un centro specializzato sull’HLH, è arrivato il verdetto: «Avete azzeccato. Curatelo».
E’ iniziata l’altra sfida. Una terapia immunosoppressiva per salvare un immunodepresso, vittima di un sistema immunitario troppo aggressivo che si autodistruggeva. «Era controintuitivo, ma...». Ma ha funzionato. Due settimane dopo Nathaniel è stato dimesso. E Maria Lia continua a non guardare il serial tv. «Ho provato, ma mi annoia! Meglio ER».