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 2009  marzo 20 Venerdì calendario

UN PONTE LUNGO 54 ANNI


Spunta sempre un esponente sabaudo nei destini della Sicilia. Nel 1955 l’ingegnere torinese Gianfranco Gilardini costituisce il Gruppo Ponte di Messina e per la prima volta pone il problema fin lì usato per dotte disquisizioni filosofiche. Anzi, gran parte della borghesia isolana è ancora sotto l’influsso di quanto scritto dieci anni prima da Antonio Canepa, vera anima del movimento indipendentista: «La Sicilia è un’isola. Da ogni parte la circonda il mare. Dio stesso nel crearla così volle chiaramente avvertire che essa doveva rimanere staccata, separata dal Continente. Ecco ciò che la geografia c’insegna».
Ma il seme lanciato da Gilardini è più forte degli insegnamenti della geografia: nel 1969 viene bandito il Concorso internazionale di idee per il ponte. Dei 143 lavori presentati, sei vengono premiati ex aequo, tra questi pure il progetto di Gilardini. Due anni più tardi una legge stabilisce che l’opera verrà realizzata da una società pubblica. Ma per costituire la società Stretto di Messina occorre attendere il 1981. Comincia così il romanzo della più imponente opera pubblica che probabilmente l’Italia mai farà. Intendiamoci: Berlusconi in prossimità di una scadenza elettorale è sempre pronto a rilanciare l’opera: nel 2001 la collocò nella Legge Obiettivo, nei mesi scorsi ne ha ripetuto la perentorietà, ma l’impressione è che neppure lui ci creda fino in fondo. Non parliamo, poi, della congrega siciliana figlia di una genia che sulle opere incompiute ci campa da un secolo, basti pensare all’inesistente sistema ferroviario.
Nei quasi ventotto anni di esistenza la «Stretto di Messina» ha assistito a un tourbillon di pareri. Da Prodi a Berlusconi, da Fini a Rutelli nessun politico ha evitato di contraddirsi ora sostenendo il ponte ora attaccandolo, portabandiera il ministro delle Infrastrutture e Trasporti, Altero Matteoli. Nel ’94, da ministro dell’Ambiente, aveva definito il progetto fumoso; nel maggio 2008 ha dato il via alle procedure per la messa in opera. Un provvedimento reso possibile dalla decisione del suo predecessore Di Pietro, che anziché liquidare la società, l’aveva messa in naftalina con la scusa di voler scongiurare le penali. In compenso dal 1985 a oggi la «Stretto di Messina» è costato ai cittadini italiani 160 milioni di euro per pagare i dirigenti e gli impiegati distribuiti su tre sedi (Roma, Villa San Giovanni, Messina), il call center, le consulenze e le perizie (ne esiste una persino sulla resistenza della struttura a un bombardamento atomico).
Proprio nell’85 l’Eni aveva presentato il progetto del tunnel, ma rispetto al ponte, sostenuto dall’Iri e da diverse lobby regionali, lamentava un’insanabile debolezza: sarebbe costato meno. E la confraternita isolana su tutto poteva transigere, compresa la costruzione del ponte, tranne che sui piccioli. L’importante era mettere in cantiere l’infrastruttura: ne sarebbero derivati finanziamenti e assunzioni, che in periodi di elezioni si sarebbero trasformati in voti sonanti. L’insegnava il precedente del Consorzio per la bonifica dell’alto e medio Belice, costituito nel 1933 per realizzare una diga osteggiata dalle «famiglie» mafiose della zona. Avrebbe infatti disturbato gli affari dei boss, che avevano in appalto le sorgenti d’acqua con cui venivano giornalmente irrigati gli aranceti della Conca d’oro. Per ritardare al massimo la costruzione della diga, Cosa Nostra s’impossessò del Consorzio. Lo presiedette a lungo l’avvocato Gensardi: la diga che non si doveva costruire fu utilizzata per assumere gli amici e gli amici degli amici, i quali dimostravano la loro riconoscenza a ogni elezione.
I costi sospesi
In un quarto di secolo il consorzio distribuì 30 miliardi di lire e ne dilapidò altri 300 nei trent’anni che precedettero l’inaugurazione della diga Garcia, dopo che i clan si erano aggiudicati i terreni sui quali doveva sorgere. Pure i costi del ponte rimangono abbastanza sospesi. Impregilo si è aggiudicato l’appalto con un’offerta di quasi 4 mila miliardi di euro, lo Stato dovrebbe garantirne un po’ più della metà per un’opera, che nelle stime ufficiali non dovrebbe superare i 6 mila miliardi, consegna entro il 2015. Anche a prendere per buoni costi e tempi - alcuni esperti parlano di 10 mila miliardi e del 2020 - rimangono gli interrogativi sull’Impregilo coinvolta nel pasticcio rifiuti della Campania e sul suo principale partner, la Calcestruzzi, accusata da alcune procure siciliane di aver barato sulla quantità di cemento nell’edificare piloni e viadotti di autostrade.
E così siamo all’ombra minacciosa della ’ndrangheta e della mafia: per essere pronte a cogliere le mille opportunità offerte dall’affare degli affari hanno messo a tacere le antiche faide. Un emissario delle «famiglie» italo-americane e italo-canadesi, l’ingegnere Giuseppe Zappia, ha rivelato che sono stati raccolti 5 mila miliardi di dollari da investire sul ponte. Lui è finito in manette e sotto processo, ma i soldi non sono stati trovati.
Un bel libro di Giuseppe Cruciani («Questo ponte s’ha da fare, Rizzoli») spiega con ricchezza di dati i motivi che dovrebbero spingere verso la costruzione. Cruciani appare addirittura più convinto degli stessi soci della «Stretto di Messina», che nelle more hanno formato un consorzio incaricato di fare ricerche sulle modalità di trasporto da una costa all’altra. I loro partner sono le famiglie Genovese, Franza e Matacena, proprietarie dei traghetti che attualmente garantiscono il servizio fra le due sponde, cioè coloro che avversano il ponte più di quanto non faccia il Vaticano con la fecondazione eterologa.
Pesanti interrogativi
D’altronde sulla fattibilità del ponte è di recente intervenuto l’ingegnere Remo Calzona, fra i più accreditati tecnici dei lavori pubblici. Da coordinatore del comitato scientifico della «Stretto di Messina» aveva garantito la sicurezza dell’opera. Ma a due anni di distanza ha cambiato opinione e pubblicato un libro («La ricerca non ha fine. Il ponte sullo Stretto di Messina, Dei») nel quale avanza pesanti interrogativi sulla resistenza della campata unica, sulle condizioni di sismicità, sulla situazione geomorfologica, sull’impatto ambientale e socio-culturale. Calzona non ne parla, ma un capitolo a parte è costituito dalla linea ferrata: dovrà alzarsi di 70 metri con l’obbligatorio rifacimento di chilometri e chilometri di binari nei due sensi per salire dal livello attuale all’altezza desiderata.
In pratica siamo a quanto scritto dai geologi e ingegneri giapponesi, che all’inizio degli Anni Novanta furono incaricati di stendere la prima relazione. Affermarono che l’imprevedibilità delle correnti escludeva di poter edificare un ponte sicuro al cento per cento. La placca del Mediterraneo è in continuo movimento per le sollecitazioni che dal Continente africano coinvolgono la penisola iberica. Il pericolo di un maremoto è in costante agguato.
E’ stato calcolato che a ponte ultimato il risparmio sui tempi attuali di attraversamento dello Stretto sarà di mezz’ora. Pochino pure per gli amanti di Messina e di Reggio, alle cui difficoltà d’accoppiamento Berlusconi vorrebbe venire incontro con il ponte.