Stefano Vespa, Panorama, 26 marzo 2009, 26 marzo 2009
STEFANO VESPA PER PANORAMA 26 MARZO 2009
Il grande fratello del dna. Anche in Italia sta per essere istituita una banca dati che raccoglierà le prove biologiche di tutte le indagini. L’esperienza dei maggiori paesi europei insegna che così si scopriranno gli autori di molti delitti. Ma il rischio è che si finisca tutti schedati: colpevoli e vittime.
Tutto cominciò con la madonnina di Civitavecchia, la statua che, raccontano, versò le prime lacrime di sangue il 2 febbraio 1995. A 14 anni di distanza, dopo fatti di cronaca e fiction televisive che hanno reso famosi gli esperti di polizia e carabinieri, siamo prossimi a una svolta: anche l’Italia avrà una banca dati del dna.
Che c’entra la madonnina? La famiglia Gregori, che la custodiva, rifiutò di sottoporsi al test del dna (che avrebbe dovuto accertare o escludere l’appartenenza del sangue ai componenti) e la Corte costituzionale nel 1996 stabilì di fatto l’impossibilità del prelievo coattivo perché il Codice di procedura penale era troppo vago, invitando altresì il legislatore a rimediare.
Anni di vuoto
Nel 2003 il procuratore antimafia Piero Luigi Vigna ricordò in un convegno del Ris la vicenda di Civitavecchia sollecitando un intervento legislativo. Il 3 marzo 2004 venne così costituito il gruppo di lavoro Biosicurezza nell’ambito del Comitato per la biosicurezza e le biotecnologie di Palazzo Chigi. Nel documento conclusivo del 18 aprile 2005 gli esperti tracciarono uno schema di disegno di legge sulla banca dati del dna e sul prelievo coattivo di campioni biologici, sostituendo tra l’altro l’articolo del codice giudicato incostituzionale nel ”96.
La caduta del governo Prodi non consentì l’approvazione di due disegni di legge. Dopo le elezioni del 2008, però, si è ripartiti da quei testi: il Senato ha dato il via libera all’unanimità il 22 dicembre e la Camera ne sta discutendo in questi giorni nelle commissioni riunite Giustizia ed Esteri. «Entro qualche settimana dovrebbe essere approvato dall’aula» anticipa Manlio Contento, del Pdl, relatore della commissione Giustizia. La legge prevede l’adesione al trattato di Prüm (riquadro a pagina 29).
Le nuove norme
A 13 anni da quella sentenza della Consulta, la ben nota rapidità del legislatore consentirà entro un anno (con le norme di attuazione) di mettere l’Italia alla pari con 24 paesi europei. La banca dati sarà istituita presso il ministero dell’Interno e il laboratorio centrale per la banca dati presso quello della Giustizia. La prima conserverà i profili di dna che saranno stati tipizzati nel laboratorio; qui saranno anche conservati i relativi campioni biologici. Sarà prelevata mucosa dal cavo orale a chi è in carcere con sentenza irrevocabile, agli arrestati con custodia in carcere o ai domiciliari, dopo un arresto in flagranza o un fermo convalidati dal giudice, a chi è sottoposto a misura alternativa e al destinatario di una misura detentiva per un reato con pena massima non inferiore a tre anni. Inoltre, l’autorità giudiziaria disporrà l’invio alla banca dati dei profili di dna tipizzati nel corso di un’inchiesta.
Fondamentale per le investigazioni è la reintroduzione del prelievo coattivo di campioni biologici (capelli, peli o mucosa del cavo orale): il giudice può disporlo per effettuare una perizia, se non c’è il consenso della persona, in caso di reati con pena dell’ergastolo o della reclusione con pena massima superiore a tre anni. In caso di urgenza può provvedere il pm, salvo convalida del giudice entro 48 ore.
I profili conservati nella banca dati e i campioni biologici saranno distrutti d’ufficio se l’accusato viene assolto con sentenza definitiva perché il fatto non sussiste o per non averlo commesso.
Lotta al crimine
«Fin dalla prima riunione con i paesi che disponevano di una banca dati, ci dimostrarono di avere ridotto drasticamente il numero dei reati ripetitivi: dal furto allo stupro»: Leonardo Santi, presidente del Comitato per la biosicurezza, sente vicino il traguardo al quale lavora da anni. «Per l’avvio è previsto che si firmino convenzioni con strutture di alta specializzazione in attesa che banca dati e laboratorio siano funzionanti».
Gli investigatori pregustano un innalzamento vertiginoso di casi risolti. Ne sa qualcosa Aldo Spinella, dirigente superiore della polizia scientifica del Viminale e membro del gruppo di lavoro Biosicurezza, uno dei massimi esperti in materia: «Dopo la strage di Capaci del 1992 l’allora procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, mi inviò a prelevare campioni biologici a diversi mafiosi: in tasca avevo un’ordinanza di prelievo coattivo. Dalla sentenza del 1996 a oggi si sottopone al test del dna solo chi vuole dimostrare la propria innocenza».
Spinella snocciola cifre inequivocabili: «In Gran Bretagna dal 2000 al 2005 la soluzione dei casi è cresciuta del 49 per cento. E in dettaglio: con la semplice investigazione 26 per cento di casi risolti; con il test del dna (ma senza banca dati) si sale al 38 per cento; con la banca dati si arriva al 59».
I dubbi
«Prima degli eventuali emendamenti ascolteremo gli esperti della polizia giudiziaria» spiega Contento. Si discute se mantenere a 40 anni il limite di conservazione dei dati, mentre sui regolamenti di attuazione il relatore è convinto che «impiegheremo molto meno di un anno», pur occorrendo una riorganizzazione della polizia penitenziaria per la formazione del personale addetto ai prelievi. Tuttavia, anche se al Garante per la privacy spetterà il controllo sulla banca dati e al Comitato per la biosicurezza quello sul laboratorio, qualche esperto avanza dubbi.
il caso di Giuseppe Gennari, magistrato del tribunale di Milano e docente di diritto privato all’Università Bocconi: «Sembra possibile l’invio alla banca dati di tutto il materiale raccolto da polizia o carabinieri durante un’indagine, dunque anche quello delle vittime di un reato. Dovrebbe esserne prevista la distruzione, ma questa clausola di salvataggio non c’è».
Un altro problema, secondo Gennari, riguarda la cancellazione dei dati, «non essendo prevista in caso di assoluzione perché il fatto non costituisce reato, di archiviazione o di proscioglimento in istruttoria per insufficienza di elementi». Gennari si definisce «un fermo sostenitore della banca dati purché organizzata con criteri internazionalmente riconosciuti» e, in sostanza, teme le conseguenze del vuoto legislativo degli ultimi anni: «Non capita quasi mai di ordinare la distruzione di ciò che è conservato in un fascicolo processuale, così come in tanti laboratori in tutta Italia c’è un patrimonio non illegale, ma dimenticato, che verrebbe convogliato nella banca dati».
Premesso che con gli emendamenti è possibile migliorare il testo, chi si è occupato dell’argomento contesta la tesi di Gennari. Spiega il magistrato Giuseppe Capoccia, dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia: «La legge parla di reperti acquisiti sul luogo del fatto, cosa diversa dal campione. Il reperto è uno schizzo di sangue, un capello; il campione è quello acquisito con le procedure ordinarie e sappiamo perciò che quella saliva appartiene a un determinato soggetto».
Il punto è che la banca dati sarà divisa in due blocchi: «Nel blocco A saranno conservati i reperti, cioè il profilo di dna relativo, per esempio, a una cicca di sigaretta trovata sul luogo di una rapina o di un omicidio e che non sappiamo a chi attribuire. Per questo si farà un riscontro con il blocco B, nel quale saranno conservati i profili di chi è già in carcere e di chi man mano viene identificato come responsabile di un reato».
Secondo Capoccia, dunque, non c’è alcun rischio che i profili di dna prelevati a una vittima di reato finiscano nella banca dati: «Sono elementi che resteranno nei fascicoli, al pari di intercettazioni o di assegni a vuoto».
Molti passaggi, utili a eliminare ogni dubbio, potranno essere chiariti con le norme di attuazione: «La legge prevede il trasferimento di tutti gli archivi delle forze di polizia e laboratori in genere. Al momento dell’entrata in funzione della banca dati si potrà stabilire che cosa conservare e che cosa distruggere».
Capoccia, inoltre, respinge le critiche sulle ipotesi di cancellazione dei dati: «Se c’è archiviazione o proscioglimento in istruttoria per insufficienza di elementi, il caso potrebbe essere riaperto nell’eventualità di nuovi elementi. Se invece si viene assolti nel merito in dibattimento, la sentenza resta anche se l’assolto dovesse confessare successivamente».
Test di massa? Sì, se necessari
Un altro dubbio riguarda la possibilità che un’intera comunità possa essere costretta a sottoporsi al test del dna. Un’ipotesi già verificatasi nel 2002 in un paesino nei pressi di Dobbiaco, in Alto Adige. Lo ricorda il pm di Bolzano Axel Bisignano, titolare dell’inchiesta per lo stupro e l’omicidio di una donna di 74 anni a Valle San Silvestro: «Per vari motivi» spiega a Panorama «era altamente probabile che il colpevole vivesse lì e dunque chiesi ai 600 uomini del paese di sottoporsi al test del dna. Furono sollevate perplessità, anche dalla stampa. Replicai che, se per legge non erano obbligati, avrei potuto effettuare centinaia di perquisizioni domiciliari sequestrando magari gli spazzolini da denti». Alla fine accettarono e con il test venne individuato l’omicida, un diciannovenne che confessò. «La nuova normativa agevolerebbe molto le indagini» conclude Bisignano.
impossibile stabilire quanti profili di dna siano conservati oggi. Con la banca dati, però, un episodio come lo stupro al parco della Caffarella a Roma avrebbe avuto più probabilità di essere risolto: così come il test del dna ha scagionato i due romeni arrestati, il profilo sarebbe stato confrontato con il database delle persone già arrestate e, in questo caso, per il colpevole non ci sarebbe stato scampo.