Pietrangelo Buttafuoco, Panorama, 26 marzo 2009, 26 marzo 2009
PIETRANGELO BUTTAFUOCO PER PANORAMA 26 MARZO 2009
Ficarra & Picone. Il loro film «La matassa» ha già scalato il botteghino. E a fine marzo torneranno a condurre «Striscia la notizia». Fenomenologia del successo di un duo comico. Palermitano fino al midollo.
Il 30 marzo Ficarra e Picone torneranno alla conduzione di Striscia la notizia e così, ancora una volta, il loro linguaggio disincantato di puri artisti servirà da contravveleno alle scivolate di qualunquismo del telegiornale satirico di Canale 5. Loro, mi sia consentita la metafora, sono come un quadro di René Magritte nel magazzino di una televendita. Un contrappasso del sublime.
Beniamini si sarebbe detto una volta. Amati dal pubblico e sciamani del buonumore sono i due. E Salvo Ficarra e Valentino Picone, infatti, in queste ultime giornate hanno totalizzato il pieno di sbigliettamento con il loro ultimo film, La matassa. Sono figli di Achille Campanile e di Luigi Pirandello (ma anche di Eugène Ionesco e di Gorgia), altro che Signor Veneranda dal ditino querulo alzato, e dell’arte comica non fanno militanza ideologica, né rutto di tette e natiche, ma poesia e favola: «La nostra fatica» spiegano con rigoroso candore «è tutta nel raccontare una storia e far ridere».
La fanno facile loro, raccontare e far ridere, mentre coi comici radunati intorno ai totem del conformismo raccontare e fare ridere, specie in Italia, è tutta acidità di stomaco. Quello che Ficarra e Picone, invece, dipanano dalla Matassa, storia di un’ingarbugliata lite tra due fratelli ereditata dai figli, è un ristoro di ilarità e sentimento. Con la dolcezza della commozione alla fine del film e perciò c’è da farselo spiegare questo segreto così facile a parole.
«Non è cinepanettone questo». Chiaro, non lo è. «Siamo alle porte della primavera, nessuno dà di corpo nel film e non ci sono femminoni messi alla nuda in tutta le pellicola». Non è il solito fragile filmino dei cabarettisti prestati al grande schermo, ma su questo non posso strappare nomi e paragoni «perché per noi» replicano «gli attori, siano di teatro, siano di televisione, hanno tutti la stessa dignità professionale».
Una novità, insomma, Ficarra e Picone, con il loro teatro e con Il 7 e l’8, e oggi con questa Matassa tutta da sbrogliare, hanno saputo offrirla: «Non è commedia all’italiana, certo». Nobilissimo genere, ma… «Ma, più modestamente» spiegano, e quando parlano sono indistinguibili, «noi vogliamo fare il cinema di Ficarra e Picone». Non voglio appunto distinguerli nella conversazione e, in verità, l’incontro con Ficarra e Picone è un cortocircuito perché, in virtù del linguaggio arcaico, intervistatore e intervistati se la cantano e se la suonano sotto la cupola a coppola del luogo comune tra loro in comune: la Sicilia. «Come dice Pino Caruso, abbiamo tutto, ci manca il resto. Ma vogliamo deformarlo questo luogo comune?».
Alteriamo pure lo spartito, ma resta il fatto che la Sicilia, nel difficile mestiere dell’arte, piace e tira: «Perché è un canovaccio esagerato, tutto ciò che respiriamo a Palermo lo trasfiguriamo sul set e in scena in forza di contrasti surreali e grotteschi. il risultato di questo lavoro che piace. L’uomo panormita cammina casualmente e gli capita d’incontrare la verità. Guarda casualmente e gli si presenta davanti l’intuizione. Casualmente si prende il caos e tutta l’armonia, all’improvviso prende possesso dell’emozione. Così con i libri, a costo di leggerli al contrario, prima o poi una cosa s’indovina. La Sicilia è lo stesso piatto di pasta raccontato da tanti, ognuno però porta il proprio condimento. Il migliore pizzaiolo di Napoli senza l’acqua della sua città non troverà angolo nel mondo per ripetere la stessa perfezione e così l’arte del raccontare una storia e far ridere, senza l’aria di Sicilia, non sapremmo farla. Forse per questo abbiamo deciso di non abbandonare la nostra città».
Questa è una notizia: due siciliani di lusso che non si sono montati la testa andando a vivere in continente. Non sarebbe giusto il caso di tornare tutti nell’isola, da Rosario Fiorello a Pippo Baudo, da Francesco Merlo ad Andrea Camilleri?
«Ma perché, ora è diventato un fatto straordinario restare in Sicilia? Come essere contro la mafia sembra essere una scelta ideologica: è inconsueto essere a favore, normale essere contro. Ma questa del restare a casa è proprio una stravaganza, sembra il capovolgimento della metafora di Massimo Troisi: un napoletano all’estero deve essere per forza un emigrato? Un siciliano contento della propria vita deve farsi per forza forestiero? normale abitare in Sicilia, anzi un lusso. Qualcuno s’è mai chiesto come mai Palermo sia l’unica città a non avere multisale e centri commerciali?».
Un dubbio, anzi, un riflesso condizionato, mi suggerisce una sciocchezza, la solita: perché la mafia non ha ancora chiuso l’affare. Ci pensano Ficarra e Picone a sfasciare il ruttino perbenista: «Perché» sorridono con specchiata gravitas «non avrebbero clientela. Una persona seria ci può andare mai a fare la spesa in una specie d’obitorio dove nessuno gli sa dire da quale acqua viene il pesce?».
Ora però, col ponte di Messina, arriverà la civiltà. «Il ponte è pericoloso. Apre un canale diretto. E poi non si può fare: se non lo fece Mussolini vuol dire che non si può proprio realizzare. Ma tanto noi lo sappiamo perché Berlusconi vuole il ponte…». Dio ce ne scampi, il demone del politicamente corretto si prende ancora una volta il devoto spettatore: perché lo vuole la mafia? Un altro sorriso, un’altra alzata di elegante gravitas: «Ma perché lui vuole l’immortalità. Col ponte se la guadagna. Ma non gli viene più comodo fare come tutti i suoi colleghi, una bella piramide e basta? Niente: capricci».
L’immortalità è una chimera irresistibile. Noi siciliani siamo così presuntuosi che già l’eternità la consideriamo una diminutio, figurarsi un ponte: «Sarà, ma che ne possiamo capire noi che siamo i campioni del vittimismo. Presuntuosi e vittimisti, tanto da pensare che solo noi siamo le vittime, noi che per pudore e prudenza non decliniamo manco i verbi al futuro?». Non diciamo andrò, ma domani vado. «Non si sa mai se poi domani ci vada di andare. Tanto è vero che non esiste il futuro del verbo ponte, non diciamo mai ponterò».
Ponteranno però, ponteranno. «E che ci possiamo fare, sempre vittime siamo».