Marco Belpoliti, La Stampa, 20/3/2009, 20 marzo 2009
IGNORA IL PROSSIMO TUO
Prima scena. La cassiera del supermercato tiene lo sguardo fisso davanti a sé, poi lo abbassa verso la macchina con cui legge i codici a barre dei prodotti. Il cliente gli allunga una banconota da 500 euro; la donna fa segno di no con la testa. Aspetta che il cliente le dia un taglio più piccolo. Intanto continua a guardare altrove. Seconda scena. Lo scompartimento del treno, un tempo una piccola stanza dentro il vagone, retaggio del tempo in cui le carrozze erano trainate da cavalli, è colmo di persone. Molti indossano le cuffie dell’iPod, altri sono chini sul computer oppure stanno telefonando al cellulare. Questi sono solo due esempi di quella che lo psicoanalista junghiano Luigi Zoja definisce nel suo nuovo libro La morte del prossimo (Einaudi), un evento che sembra segnare le società occidentali globalizzate.
La parola greca che indica il «prossimo» è plesíos, letteralmente: «l’altro che ci sta vicino», ovvero la persona che senti, che vedi, che puoi toccare. Il doppio comandamento su cui si è retta per millenni la civiltà ebraico-cristiana, ama Dio e ama il prossimo come te stesso, è diventato difficile rispettare. Non solo perché, come ha sanzionato il XIX secolo, Dio è morto - l’annuncio nicciano è diventato regola pratica per milioni di persone nel corso dell’ultimo secolo -, ma anche perché l’ampliarsi delle dimensioni del mondo rende sempre più problematico sapere chi è davvero il nostro «prossimo».
Se la capacità di immedesimarsi nell’altro è stata una delle poche certezze degli uomini occidentali, scrive Henning Ritter in Sventura lontana. Saggio sulla compassione (Adelphi), l’empatia appare ora al tramonto mentre proprio i nuovi mezzi tecnologici rendono sempre più stretto il mondo stesso, avvicinandoci le immagini della sofferenza, portandole ogni giorno nelle nostre case. Lo scrittore Witold Gombrowitz racconta in uno dei suoi diari di aver scorto un giorno su una spiaggia francese degli scarabei rovesciati all’insù, che il sole stava arrostendo, e di aver cercato di rimetterli nella giusta posizione: un insetto, poi un altro, e un altro ancora. Ma la spiaggia appare pullulante di animaletti, e Gombrowitz si rende conto dell’impossibilità a salvarli tutti. Che fare? Ritter ricorda un passo di Papà Goriot di Balzac in cui si narra un apologo: cosa faresti se potessi uccidere un mandarino in Cina con la sola forza della volontà, e diventare ricco? Il problema di stabilire un’etica della vicinanza, e insieme di un’etica della lontananza, è diventato decisivo. Secondo Zoja il circolo vizioso a cui assistiamo è quello del saldarsi dell’indifferenza per il vicino, effetto non secondario delle società di massa, e la scomparsa dei valori tradizionali, così che la morale dell’amore - fondamentale nel cristianesimo - diventa di fatto impossibile per mancanza d’oggetto. E tuttavia, con un curioso feed-back, accade che la prevalenza della lontananza e la mediazione della tecnica nei rapporti interpersonali - si pensi a Facebook e a Messenger - faccia rinascere un bisogno di intimità, ma in forme complicate, persino contorte e perverse.
Il bisogno di vicinanza negli adolescenti, ma anche nei giovani adulti, spesso si traveste, dice Zoja, di sessualità, o di altri impulsi formalmente permessi. L’occhio, a cui era affidato il compito del contatto con il prossimo, è ora divenuto un produttore di distanza sia attraverso il «palco» - vero totem dello spettacolo come della politica - sia attraverso il monitor. Forse non è un caso che l’invidia sia divenuta uno dei motori della vita sociale, esibita e usata come un vero e proprio propellente nelle relazioni pubbliche e private. Come ricordava qualche giorno fa su queste pagine Antonio Scurati, la televisione è fondata proprio sull’invidia. Invidiare è la base stessa del glamour, come ha indicato John Berger in Questione di sguardi (il Saggiatore): «la felicità di essere invidiati è glamour. Essere invidiati è una forma solitaria di rassicurazione». La spettatrice-compratrice «deve invidiare se stessa per ciò che diventerà se compra il prodotto». Negli Stati Uniti, poi, la maggior parte di cause civili ha un solo destinatario: il vicino. Ai bambini si dà sempre meno il permesso di far visita o giocare con chi vive accanto a noi.
La presenza umana appare ancora indispensabile, proprio perché ci sia un rito con trionfatori e perdenti; mentre ciò che non è più indispensabile è appunto il prossimo. Quanto di questo è attribuibile ai nuovi mezzi di comunicazione? Secondo Manuel Castells, il sociologo catalano, teorico dei media, il computer e i sistemi di comunicazione non isolano gli individui, ciascuno davanti al suo visore, ma al contrario accrescono la comunicazione, la cui forma prevalente è la democrazia orizzontale. Sarebbe invece la generazione più vecchia, estranea alle nuove tecnologie, cresciuta nella tradizionale cultura umanistica, a tradire un grave imbarazzo di fronte a tutto questo. Zoja appare più scettico, anche se concorda con un fatto con i blog, con la virtualità degli incontri in Internet, si è arrestata l’allontanamento dall’altro che ha caratterizzato il XX secolo. Il prossimo era diventato sempre più una notizia e sempre meno un sentimento, scrive, tuttavia noi soffriamo di una tragica privazione sensoriale del prossimo. Ciò che merita «la nostra compassione, e richiederebbe il nostro amore, è sempre più evidente, ma anche sempre più lontano e sempre più astratto». Da sempre la distanza è stata un ostacolo all’amore, il quale esige la prossimità che lo vivifica. Come si fa ad amare senza conoscere direttamente? L’amore virtuale è ancora amore?