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 2009  marzo 17 Martedì calendario

Dura raccontare l’estetica del Trap, di uno che ha sempre proclamato ai quattro venti: «Dobbiamo giocare senza pensare all’estetica»

Dura raccontare l’estetica del Trap, di uno che ha sempre proclamato ai quattro venti: «Dobbiamo giocare senza pensare all’estetica». A meno che per "estetica" non s’intenda quella del risultato, e cioè il godimento molto screanzato di essere brutti, sporchi e vincenti, alla faccia dei santi e dei tanti, appunto, gelidi esteti e sofisti. Cosa che gli è accaduta spesso in carriera, senza per questo mai sentirsi in colpa. Novello Bertoldo, il Trap ha attraversato il calcio in lungo e in largo con le sue scarpe grosse e il cervello fino, astuto, resistente, qua e là ridicolo, mai noioso. Ha battuto campi e panchine, ma non si è mai spento, a differenza del suo antagonista storico, Arrigo Sacchi, il cacasenno da Fusignano, fulminato un giorno dallo stress e dalla presunzione di avere un’anima da spendere a questo mondo. Ancora più dura raccontare i settant’anni all’anagrafe di questo ragazzo eterno. Sintetizzando, si può dire che li ha spesi in buona parte a incasinare e a storpiare le lingue e a semplificare il calcio, per questo amato da tanti, da Gianni Brera alla Gialappa’s. Non mancando, in privato, di ascoltare Mozart e di impartire qua e là lezioni di etica, non di estetica, per l’Opus Dei, da socialista quale resta devoto di Ratzinger. In ogni caso ha comunicato allegria. Non sempre e non a tutti. Robert Reinmiller, camionista della Pennsylvania, dopo aver cercato e trovato Caldogno nella mappa geografica, spese nell’estate del 2002 tutti i suoi risparmi per inginocchiarsi sulla ghiaia davanti al cancello della casa di Roberto Baggio e consolarlo dalle sevizie del bruto che lo aveva escluso dai mondiali. Solo per dirgli, in quel poco d’italiano appreso per l’occasione: «Il calcio non m’interessa, solo tu Baggio mi interessi, tu sei l’unico che gioca con il cuore, lo sento….fanculo Trapattoni!». Mediani d’altra parte si nasce (e quasi sempre si muore). Giovanni Trapattoni, classe 1939, modestamente lo nacque. Era già una tignosa piattola quando inseguiva a piedi scalzi una vescica di maiale gonfiata di stracci all’oratorio di Cusano, nell’hinterland milanese. A meno che non si chiamino Beckenbauer o Fabregas, i mediani hanno polpacci grevi e fantasie unilaterali. Li eccita a sangue il tanfo del talento. Dove c’è un talento, loro si vendicano. Da calciatore, il Trap si costruì una reputazione annullando fenomeni come Pelè o sbattendosi per loro (quanto sangue buttato per Gianni Rivera). Da allenatore ha vinto tutto ed è finito nella Treccani, lasciandosi rimorchiare dai fenomeni, rispettandoli ma mai amandoli, da Michel Platini a Lothar Matthaeus e adescando, con meno fortuna, quelli nostrani, i Del Piero, i Totti e i Cassano. Solo su Roberto Baggio, chissà perché, fece muro, lasciando milioni di cuori spezzati. Raccontato come «un barbaro padano tutto d’un pezzo», insomma una specie di tedesco, il Trap è al contrario un italianissimo Nureyev del galleggiamento. Un genio dell’adeguamento, ipersensibile nel fiutare dove va il vento. Un forzato della simpatia. Santino che resiste in una nazione che gli allenatori li divora come biscotti a colazione. Non servile, ma guitto di vocazione. Nella sua foga di risultare simpatico a tutti, a Nereo Rocco e all’avvocato Agnelli, a Bruno Vespa e alla Parietti, ai tedeschi e agli irlandesi, a furia di gatti, sacchi e Strunz, sproloqui, fischi e ampolle, mimica e iperboli, diventò uno spot ideale, pagato anche bene per prendere a pugni una lavatrice. Primo esemplare al mondo di mediano telegenico, più spiritato che spiritoso, molto prima di Rino Gattuso. Molto, ma molto prima di Mourinho, verboso e strampalato seduttore in qualunque lingua. Nel suo caso, la parola non è arma letale ma caos pulcinellesco, rumore scientificamente orientato a coprire il vuoto. Là dove Josè incupisce e angoscia con il suo martellante culto di sè, il Trap esilara e diverte con il suo grammelot tutto inventato e scoppiato di suoni che sono una festa, ti riscalda e ti manda a casa leggero. Solo una volta si arrabbiò di brutto. La sua Corea. Si chiamava Byron Moreno. Ma c’è chi giura che anche allora sapeva di avere una telecamera addosso.