Francesco Vaccarino, La stampa 18/3/2009, 18 marzo 2009
DATEMI UN NODO E VI SVELERO’ LA VITA"
Immaginate un grandissimo foglio di carta, sul quale si possano muovere linee, triangoli, quadrati, esagoni e cerchi. Immaginate che possano andare in giro senza però mai abbandonare la superficie né immergervisi. Ecco l’immagine con cui il reverendo Edwin Abbot introduce Flatlandia, il mondo a due dimensioni. Una realtà fantastica, che dipinge una società pseudo-vittoriana con tipico humour inglese. Al Festival della Matematica il neozelandese Vaughan Jones, vincitore della Medaglia Fields per gli studi sulla teoria dei nodi e sulla topologia a bassa dimensione, partirà proprio da quell’universo per guidarci nei meandri della bidimensionalità, terribilmente complessi e affascinanti.
Professore, che cos’è la teoria matematica dei nodi?
«I nodi per i matematici sono come quelli che si ottengono allacciando le scarpe, con la differenza che si uniscono gli estremi della stringa in modo da ottenere uno o più cappi continui. Così come una retta è il concetto astratto che rappresenta qualcosa di infinitamente sottile, allo stesso modo la stringa che annodiamo sarà infinitamente flessibile e allungabile. Il primo obiettivo della teoria, quindi, è quello di determinare quando due nodi sono deformabili l’uno nell’altro mediante allungamenti e attorcigliamenti che non li taglino».
Quale è il nodo più semplice?
«Il nodo più semplice è quello definito come ”banale”, che si rappresenta come un cerchio».
E gli altri?
«Sebbene sia facile convincersi che un nodo debba essere tagliato per sciogliersi, dimostrare che sia vero è un altro paio di maniche. Infatti i nodi sono stati studiati per decenni prima che fosse dimostrata l’esistenza di un nodo ”non banale”».
Detta così, sembra una questione piuttosto astratta.
«E invece non è così. Queste domande sono sorte in biologia alla fine del XX secolo. Le molecole del Dna, per esempio, sono molto lunghe e flessibili e si annodano, avvolgendosi. Come ci riesca la natura rimane un mistero, ma nel tentativo di capirlo ci si trova di fronte al problema di distinguere i tipi di nodi. Gli strumenti matematici per farlo si sono dimostrati fondamentali».
In questo contesto appaiono i polinomi, di cui uno porta il suo nome, il polinomio di Jones, appunto. Che cos’è e che cosa rappresenta?
«Con mia stessa sorpresa il significato profondo del polinomio di Jones di un nodo rimane tuttora abbastanza oscuro. Sebbene sia abbastanza facile da definire e manipolare, ciò che dice in rapporto al nodo rimane poco chiaro. Il miglior approccio, finora, proviene dalla fisica quantistica. Ma - mi rendo conto - dire che la variabile che appare nel polinomio è l’esponenziale della costante di Planck non è di grande aiuto, nemmeno per rispondere a domande di facile formulazione».
Per esempio?
«La domanda più importante tra quelle facili da formulare è se esista un nodo che abbia lo stesso polinomio di un cerchio. Sappiamo che un tale nodo deve avere almeno 18 incroci in un’immagine piana, ma nessuno sa bene da dove iniziare ad affrontare la questione».
Crede che si possano almeno trovare algoritmi quantistici per calcolare esattamente il valore del suo polinomio?
«Se mi avesse posto questa domanda prima del lavoro con Aharonov e Landau avrei risposto: ”Ci deve essere un algoritmo quantistico rapido che calcola i polinomi”. Durante quell’esperienza ho potuto apprezzare alcune delle sottigliezze del ”quantum computing” e ora sono molto meno sicuro che si possa trovare un tale algoritmo».
A proposito di problemi computazionali, uno dei «Millenium Problems», la cui soluzione frutterebbe tra l’altro un milione di dollari, è il cosiddetto P = NP, che si riferisce al tempo che un computer impiegherebbe a svolgere un algoritmo in rapporto alla dimensione dei dati iniziali. Lei che ne pensa?
«La mia risposta è un mezzo sì per P = NP. In ogni caso l’esistenza di un algoritmo quantistico veloce per un problema NP completo non risolverebbe P = NP».
Ritornando a Flatlandia e alla bidimensionalità, perchè, contro la logica comune, le strutture di «bassa dimensione», per esempio quelle piane, sono più difficili da maneggiare per un matematico?
«Risponderò con un esempio, che non citerò nella mia conferenza a Roma. Possiamo chiederci: quanti colori sono necessari per colorare in modo non ambiguo una mappa disegnata su una superficie di genere elevato, vale a dire su una ciambella con tanti buchi? In questo caso il grafo che connette i vari Stati della mappa non è necessariamente contenuto in un piano. Se il genere è elevato, la risposta è facile da trovare. Viceversa, il caso di genere zero, cioè quello senza buchi, è il più difficile. Stavolta il grafo associato è piano: c’è qualcosa di veramente speciale nella combinatoria piana!».
Quali sono i suoi suggerimenti per un giovane che voglia studiare la matematica?
«Ho due mezzi suggerimenti contraddittori: il primo è di seguire i propri interessi e le proprie inclinazioni. Il secondo è di imparare cose diverse tra loro. La gente finisce in strani posti, seguendo le proprie curiosità, ma, se mantiene il contatto con quello che è il flusso principale, c’è una buona probabilità che arricchisca la matematica con punti di vista originali».