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 2009  marzo 18 Mercoledì calendario

I PALETTI ALLO STATO


Nelle ultime settimane, il dibattito sui rimedi alla crisi finanziaria ha subito due importanti evoluzioni parallele. La prima riguarda il ruolo delle banche: man mano che la prospettiva di un sostegno pubblico al capitale delle banche - tramite i cosiddetti «Tremonti bonds» e gli analoghi strumenti di altri Paesi - si è fatta più concreta, gli obblighi ai quali le banche dovrebbero sottostare per avere accesso a questa fonte di finanziamento (piuttosto cara, visti gli attuali andamenti dei tassi) sono diventati sempre più gravosi e più lontani dalla normale attività bancaria: si è arrivati, nel dibattito politico, a ipotizzare semplicisticamente l’obbligo per le banche di riservare quote predeterminate del credito alle piccole e medie imprese sotto il controllo dei prefetti.
Se ne deve dedurre che il compito del banchiere non sarebbe più quello di compiere una valutazione, di cui è personalmente responsabile, del rischio connesso alla concessione di credito alle singole imprese bensì quello di adempiere un dovere burocratico-amministrativo, con il prefetto che lo incalza.

Elo potrebbe, al limite, sanzionare se non raggiungesse una certa «quota» di credito erogato. L’immagine di un banchiere libero nel suo operare che presta denari non suoi ed è tenuto a non perderli perché li deve restituire ai depositanti aumentati di un, sia pur minuscolo, interesse sembra così perdere di consistenza.
La seconda evoluzione riguarda la posizione delle piccole e medie imprese. Si è fatta strada l’idea che, anziché il risultato di una convergenza della libera volontà di una banca e di un’impresa, il credito sia un «diritto» per le imprese, specie se piccole e in difficoltà, in base a valutazioni esterne largamente sganciate dalla loro produttività, dai loro prodotti, dai loro programmi. A leggere alcune dichiarazioni di politici si deve concludere che il credito verrebbe «erogato» quasi automaticamente come si «erogano» i vaccini durante un’epidemia.
Queste tendenze sono emerse, in maggiore o minor misura, in un gran numero di Paesi. Il presidente degli Stati Uniti ha incluso misure che facilitano il credito alle piccole imprese nel suo «pacchetto» di rilancio con l’obbligo per le banche di trasmettere informazioni in merito alla loro attuazione. Dall’Australia alla Francia, dalla Gran Bretagna alla Germania, la mobilitazione delle piccole imprese per avere condizioni creditizie e fiscali di favore si sta, del resto, sviluppando con una forza imprevista, forse superiore alla mobilitazione dei lavoratori delle grandi imprese per salvare il proprio salario. Il tutto potrebbe convergere, certamente al di là delle intenzioni di gran parte dei proponenti, e in maniera sicuramente imprevista, verso soluzioni di tipo «sovietico», ossia verso un pesante dirigismo di tipo amministrativo riferito al credito bancario, una forma parzialmente inedita di protezionismo.
Questa concezione del ruolo di banche e imprese si è rivelata particolarmente forte in Italia, per l’incidenza assai alta di imprese piccole. Ed è toccato al governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nella sua audizione di ieri alla Commissione Finanze della Camera, chiarire i limiti entro i quali interventi amministrativi sul credito possono essere accettabili. Rimasto silenzioso di fronte agli «sconfinamenti» sul terreno bancario del governo e in particolare del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, Draghi ha risposto con il linguaggio misuratissimo dei banchieri centrali sottolineando la fondamentale solidità delle banche italiane. Grazie a questa solidità, gli interventi di sostegno al capitale decisi dal governo non sono forme di salvataggio di chi sta per annegare ma semmai dei ricostituenti per sostenere la corsa. Ha rivendicato «la forza patrimoniale della banca centrale italiana» che ha consentito interventi rapidi e di ammontare significativo senza mettere a rischio gli equilibri del bilancio (altrettanto non si potrebbe dire, tra l’altro, della banca centrale degli Stati Uniti). Ha denunciato senza mezzi termini la possibilità di pressioni a livello locale, il «pericolo di interferenze politico-amministrative nelle valutazioni del merito di credito di singoli casi».
Sarebbe errato ridurre a un contrasto personale Tremonti-Draghi la differenza di opinione tra un governo «interventista» e una Banca d’Italia tesa a preservare la caratteristica del credito come «attività imprenditoriale». Lo scontro è, semmai, tra due modi di intendere il ruolo delle banche centrali e del sistema bancario in genere: subordinato, non solo secondo il governo italiano ma più in generale secondo «i governi» dei Paesi ricchi, a più generali esigenze nazionali; libero e imprenditoriale secondo i governatori delle banche centrali. Per cui può anche succedere che governi, come quelli attuali di gran parte dell’Occidente - Italia naturalmente compresa e, anzi, in prima linea - partiti con istanze di difesa del mercato e delle libertà economiche, finiscano per intervenire in senso non precisamente confacente ai principi di questo mercato e queste libertà. chiaro che in questa crisi perdurante - sulla cui rapida fine neppure il governatore Draghi ha dato alcuna speranza - il pendolo si sta spostando dal mercato verso lo Stato; ma occorre porre dei paletti. E uno di questi, forse il più importante, deve essere la libertà di decisione e di azione di banche economicamente sane.