Marzio Barbagli, Congedarsi dal mondo. Il suicidio in Occidente e in Oriente. Il Mulino 2009, 18 marzo 2009
CONGEDARSI DAL MONDO. IL SUICIDIO IN OCCIDENTE E IN ORIENTE
di MARZIO BARBAGLI. Ed. IL MULINO 2009
(Versione extra large) di Francesco Billi
Il termine suicidio è di origine relativamente recente. Nonostante sia formato da due parole latine, sui e cudere, suicidium non esisteva nella lingua latina antica. E anche nelle principali lingue europee è mancato a lungo il sostantivo per indicare l’atto di chi pone fine ai suoi giorni. Fu sir Thomas Browne, in un’opera pubblicata nel 1642, che introdusse il neologismo suicidio, riferendosi a quello pagano di Catone, per distinguerlo dal self-killing condannato dalla religione cristiana. In Francia fu introdotto nel 1734 dall’abate Prévost e fu ripreso da Voltaire, Helvétius, d’Holbach e molti altri. La parola italiana arrivò probabilmente grazie a Giuseppe Baretti e al suo dizionario di Inglese-Italiano pubblicato a Londra nel 1760. Nel 1761 fu ripreso da Agatopisto Cromaziano e tre anni dopo da Cesare Beccaria. In Spagna entrò nel 1770, in Portogallo nel 1844.
La più importante teoria sul suicidio di cui disponiamo è quella proposta nel 1897 dal sociologo francese mile Durkheim secondo cui la frequenza delle morti volontarie ha due grandi cause: l’integrazione e la regolamentazione sociale. Il tasso di suicidio è alto quando l’integrazione è troppo alta (suicidio «altruistico») o troppo bassa (suicidio «egoistico»). E lo stesso se una società regola troppo (suicidio «fatalista») o troppo poco (suicidio «anomico»).
Durkheim credeva fermamente che la riprovazione del suicidio crescesse quanto più i diritti dell’individuo nei confronti dello Stato si sviluppavano e le persona umana veniva considerata come una cosa sacra, «anzi la cosa sacra per eccellenza, alla quale nessuno può attentare [...] L’uomo si è impregnato di religiosità, ed è diventato un dio per gli uomini. Ecco perché ogni attentato rivolto contro di lui ci sembra un sacrilegio, e il suicidio è uno di questi attentati. Il suicidio è dunque riprovato perché deroga da questo culto della personalità umana su cui poggia tutta la nostra morale». Mentre il suicidio «altruistico», tipico dei «popoli primitivi», sempre secondo Durkheim, scompariva man mano che le società progredivano, mentre quelli egoistici e anomici crescevano. Invece negli ultimi 40 anni del 900 le cose si sono capovolte. C’è stato il rapido declino di quelli egoistici e anomici mentre i suicidi altruisitici hanno assunto una rilevanza straordinaria, con conseguenze politiche e sociali mai viste prima.
Barbagli dice che l’integrazione e la regolamentazione sociale non sono né le uniche né le più importanti cause delle variazioni nello spazio e nel tempo dei tassi di suicidio, e quindi la tipologia proposta dal sociologo francese non è più di grande utilità. Lui preferisce prendere in considerazione altri due tipi di propositi di suicidio: quello per (egoistico - per se stessi - e altruistico - per gli altri - e si riferisce solo alle intenzioni degli individui e non alle cause sociali che li provocano) e quello contro le quali ci si toglie la vita (aggressivo - per motivi privati - o come arma di lotta - una causa collettiva). Barbagli sostiene la tesi che i fattori di influenza sui diversi tipi di suicidio sono culturali, sono cioè patrimonio di schemi cognitivi e di sistemi di classificazione, di credenze e di norme, di significati e di simboli dei quali dispongono gli uomoni e le donne. Secondo B. infondata è innanzitutto l’dea che «coll’avanzare della storia» il divieto di togliersi la vita diventasse «sempre più rigido» (virgolettati di Durkheim). Il grande edificio di valori, norme, sanzioni, credenze, simboli, categorie interpretative che condannavano o scoraggiavano il suicidio, che si era formato in Europa a partire dal V secolo, e che aveva dominato per secoli, solido e imponente, iniziò a un certo punto ad avere delle crepe e a vacillare e poi, a distanza di molto tempo, a dispetto di tutti gli sforzi fatti per rafforzarlo e tenerlo in piedi, crollò definitivamente. Non meno infondata, sempre secondo B., è l’altra tesi che la riprovazione del suicidio sia cresciuta quanto più i diritti dell’individuo nei confronti dello Stato si sono sviluppati, e quanto più la persona umana è stata considerata una cosa sacra. Tutto fa infatti pensare che sia accaduto esattamente l’opposto. Inutile dire che i fattori che hanno provacato la crisi di questa morale riguardo alla morte volontaria sono stati numerosi. Ma, fra questi, grande importanza ha avuto l’affermazione del diritto di ciascuno non solo alla vita, alla libertà e alla proprietà, ma anche alla scelta su quando congedarsi dal mondo.
Gli aspetti più rilevanti:
• le intenzioni di chi si toglie la vita
• il modo in cui lo fa
• il significato che lui e gli altri attribuiscono al gesto
• i riti che vengono celebrati prima e dopo
A seconda delle culture, la morte volontaria è spiegata riconducendola a fattori sovrannaturali oppure naturali, a un evento drammatico e allo stato d’animo di chi si è tolto la vita oppure alle azioni di qualcun altro che lo ha spinto a farlo. Quanto alle conseguenze, in alcuni luoghi e periodi storici, il suicidio è considerato fonte di disastri e di sventure, in altri come un evento felice, capace di attribuire a chi lo compie poteri straordinari, in altri ancora un fatto non troppo diverso dalla morte naturale.
Almeno il 90% delle persone che si uccidono soffrono di malattie mentali.
Gli schizofrenici che, nel corso della loro vita, si suicidano, sono il 4,9%.
La sindrome ossessivo-compulsiva (come chi si lava le mani a intervalli regolari durante il giorno, chi accende e spegna le luci tre quattro volte prima di da una stanza) è una delle poche malattie mentali che non comporta un aumento del rischio di suicidio.
Si uccidono invece sette otto volte più del resto della popolazione coloro che soffrono del disturbo borderline di personalità o di schizofrenia.
Un rischio ancora più alto (quindici venti volte sopra la media) chi soffre di depressione maggiore e di disturbo bipolare.
La scrittrice inglese Virginia Woolf (19882-1941) che prima di affogarsi nel fiume Ouse, aveva tentato di uccidersi buttandosi dalla finestra (1905) e con una dose massiccia di Veronal (1913). Soffriva di disturbo bipolare cioè passava da fasi maniacali a fasi depressive.
Nella famiglia di Ernest Hemingway, morto suicida a 62 anni, nell’arco di settant’anni e quattro generazioni cinque persone si tolsero la vita.
ANTICHITA’
Il caso di Sansone, l’eroe israelita le cui grandi gesta sono narrate nell’Antico Testamento, che abbracciando le due colonne che sostenevano il tempio, lo aveva fatto crollare pronunciando la frase: «Che io muoia insieme con i filistei».
Nell’antica Roma agli uomini liberi era consentito di togliersi la vita per un gran numero di motivi: una malattia, il dolore fisico, la paura, il desiderio di vendetta, la perdita di una persona cara, il furor (cioè un eccesso di follia), l’insania (ossia l’incapacità di rendersi conto della portata dei propri atti, o per aver subìto uno stupro o per essere stati sconfitto in una battaglia. Ma il suicidio non era solo tollerato. Almeno nell’élite colta che si rifaceva allo stoicismo, esso era considerato la forma di espressione più alta della libertà. anche per questo che spesso l’atto di chi si toglieva la vita aveva natura pubblica, quasi teatrale, ed era compiuto con calma, senza tradire l’ira, la disperazione o la paura, di fronte a numerosi testimoni. Tollerenza a patto però che a suicidarsi non fossero militari o schiavi (i subalterni).
Nel periodo dell’impero romano questo clima comincia a cambiare. Alcuni filosofi neoplatonici condannano moralmente il suicidio.
Nel periodo repubblicano fu introdotta, allo scopo di evitare un danno per il fisco, una norma che prevedeva la confisca dei beni di coloro che si uccidevano mentre erano sotto giudizio per un reato che comportava tale condanna. Ma la frattura con l’universo culturale romano si completò nel V secolo d.C. quando Agostino creò le basi dell’etica cristiana del suicidio.
CRISTIANESIMO
Agostino definì la morte volontaria «un misfatto detestabile e un delitto condannabile»; «Come potrà essere giudicato innocente colui a cui è stato detto: ”Amerai il prossimo tuo come te stesso”, se ha commesso omicidio contro se stesso, quando l’omicidio è proibito contro il prossimo?”; «La migliore vita dopo la morte non ammette i rei della propria morte».
con Agostino che la grandezza d’animo, la sapienza, la ragione, la sofferenza e l’onore assumevano un significato del tutto diverso da quello che avevano avuto in passato. Attribuì un senso al dolore, lo considerò un mezzo per raggiungere un fine, perché permettava all’uomo di affermarsi «nella sua essenza, come creatura che soffre per la gloria del suo creatore».
A. negò anche che lo stupro togliesse l’onore e la castità ad una donna (solo la verginità), tanto da essere costretta ad uccidersi.
Le tesi di Agostino ebbero un’enorme influenza sulla dottrina della chiesa cattolica e sulle sue prese di posizione ufficiali e a condannare tutte le forme di suicidio furono, per la prima volta, i concili di Braga del 563 e di Auxerre del 578. Questi principi furono ripresi dalle leggi civili del potere temporale. Il divieto degli onori funebri a coloro che si toglievano la vita, previsto dal concilio di Auxerre, entrò nei capitularia dei re carolingi e di Carlo Magno.
Poi arrivò Tommaso D’Aquino nel XIII secolo e sancì che il suicidio era «più pericoloso» dell’omicidio perché non lasciava il tempo per l’espiazione.
Nella cultura cristiana Giuda è considerato il peccatore per eccellenza non tanto perché aveva tradito Cristo, quanto piuttosto perché non aveva tenuto fede in Dio e, dubitando di essere perdonato, si era tolto la vita.
Secondo credenze precristiane, che tuttavia con il cristianesimo riuscirono a convivere senza troppi conflitti, i corpi dei suicidi erano a rischio di contagio (ad esempio si pensava che se una donna incinta avesse oltrepassato una tomba di un suicida, il nascitura sarebbe stato destinato a togliersi la vita) e fossero fonte di disastri. A essi venivano attribuiti i periodi di gelo e quelli di siccità, gli uragani e le alluvioni, i terremoti e le frane, i cattivi raccolti e le carestie.
Per molti secoli il suicidio fu considerato assai più grave di un omicidio. Il motivo è che chi ammazzava uno, poteva ucciderne solo il corpo «ma non assolutamente l’anima. Invece, chi uccide se stesso perde certamente il corpo e l’anima propria» (Le Brun de la Rochette, 1661). In altre parole il suicidio era un omicidio doppio: fisico e spirituale (escludeva ogni possibilità di pentimento).
Effetti perversi. Il ventiduenne Pierre-Daniel Huet, futuro vescovo di Avranches, in Normandia, che arrivato nel 1652 a Stoccolma proclamò di aver scoperto un «nuovo, quasi incredibile delitto»: persone intenzionate a morire che però rifiutavano il suicidio per paura della dannazione eterna, usavano la strategia di ammazzare un bambino che, grazie all’innocenza della sua età, non era ancora compromesso con il peccato e sarebbe stato quindi accolto in cielo, mentre lui, condannato alla pena capitale, avrebbe avuto tutto il tempo per pentirsi profondamente prima dell’esecuzione assicurando quindi anche a se stesso il paradiso. Chiamato ”suicidio indiretto”, fu una conseguenza non desiderata e non prevista della morale cristiana, che portava i fedeli a credere che non vi fosse altra via d’uscita per chi voleva togliersi la vita e al tempo stesso ottenere la salvezza dell’anima. A Stoccalma durante il Seicento il numero dei suicidi compiuti con un omicidio arrivò a sfiorare quello delle morti volontarie dirette. E solo verso la fine del Settecento paesi come Svezia, Danimarca e Prussia emanaro delle leggi che lo scoraggiassero efficacemente stabilendo che «se qualcuno commette un omicidio con l’intento di essere giustiziatonon deve raggiungere questo fine». Il reo sarebbe stato condannato a punizioni dure e infamanti, ma non alla pena capitale.
MEDIOEVO
Nell’età medioevale, se un servo o un vassallo si uccideva, il signore faceva il possibile per avere una qualche forma di risarcimento per il danno subito, senza peraltro che né lui né gli altri considerassero questo un atto arbitrario. Anche quando vi era l’uso del ravage, cioè di distruggere la casa del suicida e di bruciarne i campi, al signore feudale spettavano pur sempre i frutti di un anno della proprietà del malfattore. L’uso del ravave scomparve alla fine del XIII secolo, non perché le pene nei confronti di chi si toglieva la vita fossero diventate meno severe, ma perché il signore preferiva confiscare i suoi beni piuttosto che distruggerli.
I familiari o i parenti di coloro che si uccidevano riuscivano in certi casi a ottenere un verdetto più clemente offrendo una somma di denaro.
Nella prima metà del Cinquecento, in Germania, il corpo di un impiccato lo facevano uscire di casa da un buco sulla parete o da un tunnel scavato sotto la porta principale.
In Francia nel 1525 Jean Beacourt, un soldato invalido che si era impiccato a un albero, dopo un regolare processo fu ritenuto colpevole di «omicidio di se stesso» e condannato a varie pene.
In Svezia, quelli che cercavano di suicidarsi venivano condannati alla pena di morte.
Tra il 1600 e il 1700, in numerosi paesi europei, se a togliersi la vita era un uomo il suo cadavere veniva impiccato. Altre volte, lo appendevano alla forca per i piedi, oppure si stragolava il suicida. Se il colpevole era una donna il suo corpo veniva bruciato.
In tutta Europa, il corpo di chi si era ucciso veniva sottoposto a vari riti di profanazione e sconsacrazione. Se era trovato in casa, veniva talvolta buttato sulla strada dalla finestra o dal tetto. Imprigionato in attesa del processo, veniva conservato grazie al sale o imbalsamato. Dopo la sentenza, era trascinato a lungo per le vie, le piazze e i campi del paese da un cavallo a cui era stato attaccato con una robusto corda. Questo rito veniva compiuto anche quando il corpo era in stato avanzato di putrefazione, mettendolo dentro un sacco o sostituendolo con un manichino.
Fuori dalle città, lontani dai vivi, dalle chiese e dalle tombe dei santi, venivano sepolti i corpi dei suicidi. Per tutto il medioevo la Chiesa cattolica gli ha rifiutato, al pari degli omicidi, gli onori funebri.
Altre volte (Olanda, Sardegna nel Seicento), il corpo restava appeso al patibolo finché non fosse corroso dal tempo e mangiato dagli animali. Molto spesso veniva sotterrato senza la bara.
A Zurigo se una persona si era buttata dall’alto veniva tumulata sotto una montagna, se si era affogata era sotterrata nella sabbia non lontano dal marem se si era uccisa con un coltello gli si conficcava nella testa un cuneo di legno. In Germania si metteva il corpo del suicida in una botte di legno e la si gettava in un fiume.
Nel 1672, nella campagna bolognese, una donna condannata a morte per aver ucciso le due nipotine, fu impiccata nel luogo adibito alle esecuzione nonostante ci avesse già pensato lei qualche giorno prima, in carcere, con l’impagliatura di due fiaschi di vino.
Molti degli africani trasportati con la forza nelle Americhe erano persuasi che, togliendosi la vita, potessero sottrarsi alla schiavitù, fare ritorno nel loro paese, restare in felici in compagnia di donne bellissime e con tutto il cibo che volevano. Travatisi ad affrontare un enorme numero di suicidi, alcuni proprietari di schiavi gli fecero cambiare idea minacciando di uccidersi loro stessi e di seguire in Africa, con la frusta in mano, gli schiavi che si suicidavano e di essere molto più severi di quanto lo fossero stati fino ad allora.
ETA’ MODERNA
Se in Europa fino agli ultimi decenni del Seicento il numero dei suicidi è sempre rimasto contenuto è principalmente perché gli uomini e le donne sono stati tenuti lontani in molti modi dalle possibilità di togliersi la vita. Ma più in generale la cultura formatasi lentamente dopo la svolta di Agostino ha operato come un efficacissimo e potente sistema di regolazione sociale delle emozioni. Lo ha fatto portando ad attribuire alcuni eventi e situazioni un significato diverso da quello che avrebbero dato loro gli uomini e le donne di altre culture, in altri periodi storici e in altre parti del mondo.
Almeno nelle élite culturali l’etica cristiana riguardo al suicidio mostrò i primi segni di crisi fra la metà del Cinquecento e quella del Seicento. Con una certa cautela si erano mosse anche tre grandi figure della cultura europea. Tommaso Moro (considerò ”onorevole” l’eutanasia per malattie incurabili) Michel de Montaigne (contemplò la ”sazietà di vivere”), il poeta e teologo anglicano John Donne (scrisse un trattato di teologia e moralità cristiana sulla leicità del suicidio sostenendo che lo stesso Cristo si uccise volontariamente), Hume e Montesquieu (che si batté con decisione perché il suicidio non fosse più considerato reato). Poi arrivarono gli illuministi: Voltaire e Cesare Beccaria chiesero pubblicamente la depenalizzazione del suicidio. Dalla metà del Cinquecento in poi, il suicidio era stato visto da coloro che ne avevano sostenuto la leicità, come espressione dell’autonomia e della libertà dell’individuo. La vita degli uomini e delle donne non apparteneva più, secondo la nuova etica, a Dio, al signore feudale o al sovrano, e neppure al capofamiglia, ma solo a essi stessi ed erano soltanto loro che potevano decidere se rinunciarvi.
Nel romanzo cortese e poi in quello pastorale celebrato fu il suicidio d’amore. Un atteggiamento sempre più aperto verso la morte volontaria si ebbe con la nascita della tragedia e del romanzo. William Shakespeare fu il drammaturgo che prestò maggiore interesse per il suicidio, affrontando questo tema in 32 pieces nelle quali si toglievano la vita ben 24 persone. Con Amleto ripropose, e con straordinaria efficacia, la domanda se valesse la pena togliersi la vita per ”non sopportare le frustate e gli insulti del tempo, le angherie del tiranno, il disprezzo dell’uomo borioso, le angosce del respinto amore, gli indugi della legge, la tracotanza dei grandi, i calci in faccia che il merito paziente riceve dai mediocri”.
Negli ultimi decenni del Cinquecento e nei primi del Seicento, in alcuni paesi europei (Inghilterra su tutti), i poeti, i romanzieri, ma soprattutto i drammaturghi e i commediografi assunsero il ruolo di precursori nel mutamento della sensibilità nei confronti del suicidio. Lo tolsero dell’ombra degli argomenti vietati in cui era rimasto per secoli e lo collocarono al centro della loro riflessione e dei loro racconti. Diressero la loro attenzione non verso le dottrine morali, i valori, i concetti, ma verso le persone in carne e ossa, le loro emozioni e le loro idee, le situazioni concrete nelle quali si trovavano. Attenzione però alla ragioni estetiche e pratiche dei drammaturghi: l’atto suicida costituiva una potente risorsa drammatica, aveva una straordinaria spettacolarità.
«La morte di una bella donna è indiscutibilmente il soggetto più poetico del mondo» (Edgar Alln Poe nel 1846).
Il processo di abrogazione delle norme che prevedevano una condanna per il suicidio iniziò nelle colonie inglesi del Nord America (inizio Settecento). Il processo di revisione dei codici penali si verificò poi in tutti i paesi d’Europa, ma in momenti assai diversi, tanto che ci vollero ben due secoli e mezzo perché esso potesse compiersi interamente. In Italia, il ”codice penale per gli stati di Sua Maestà il Re di Sardegna”, promulgato nel 1839 da Carlo Alberto di Savoia, stabiliva, all’articolo 585, che ”chiunque volontariamente si darà la morte è considerato dalla legge come vile, e incorso nella privazione dei diritti civili, e in conseguenza le disposizioni di ultima volontà che avesse fatte saranno nulle e di niun effetto; sarà inoltre il medesimo privato degli onori funebri di qualunque sorta”. Per quanto riguarda le religione cattolica, ancora nel 1917 il codice di diritto canonico promulgato da Benedetto XV riaffermava il divieto di porre fine alla propria vita. Era soprattutto un’affermazione di principio, perché in realtà bastava un certificato medico che attestasse qualche tipo di disturbo psichico perché il suicida acquistasse il diritto a ricevere tutte le cerimonie religiose. Anche la richiesta di questo certificato venne meno nel 1965, con il Concilio Vaticano II.
Il vero aumento dei suicidi, nell’Europa Occidentale, iniziò negli ultimi decenni del Seicento. Dopo il 1680, si verificarono in Inghilterra numerose morti volontarie tra persone appartenenti ai ceti più elevati (conti, baronetti, cavalieri, borghesi, professionisti, editori, prelati, funzionari di stato). Studiosi cominciarono a parlare di ”male inglese”.
Philippe-Néricault Destouches, inserì in una delle sue commedie, questo epitaffio: «Qui giace Jean Rosbif scudiero / che si impiccò per svagarsi».
Montesquieu nel 1749: «Gli inglesi si uccidono senza che si possa immaginare nessuna ragione che ve li determini, si uccidono persino in piena felicità [...] l’effetto di una malattia [...] generata dal clima, che colpisce l’anima a un punto tale da portare al disgusto di tutte le cose fino a quello della vita».
Voltaire nel Candide fa dire alla ”vecchia”: «Ho visto un numero prodigioso di gente che esecrava la propria esistenza; ma non ne vidi che dodici porre volontariamente fine alla loro miseria: tre negri, quattro inglesi, quattro ginevrini e un professore tedesco di nome Robeck».
Dall’Inghilterra l’aumento si diffonde in Europa, soprattutto in Francia dove però ad ammazzarsi sono quelli delle classi inferiori.
Nel Settecento (come per altro in gran parte dell’Ottocento) il tasso di suicidio della capitale inglese era circa 9 per 100.000 abitanti, mentre quello di Parigi era da due a tre volte superiore (nel 1793, l’anno più drammatico del periodo del terrore, il tasso fu di 130 per 100.000 abitanti con 1.300 suicidi tra cui due ministri e il sindaco di Parigi). (Vedi tabella pagina 41)
Non è per mancanza di integrazione e di sostegno sociale che gli appartenenti ai ceti più elevati si uccideranno più frequentamente degli altri, nel corso dell’Ottocento o all’inizio del Novecento, ma perché erano stati i pioneri di un grande mutamento culturale, perché per primi si erano allontanati dall’insieme di valori, norme, credenze, categorie interpretative che avevano dominato in Europa per secoli, per primi si erano resi conto che gli uomini e le donne non si uccidevano per cause sovrannaturali, perché non sapevano resistere alle tentazioni diaboliche, per primi si erano convinti che la loro vita non apparteneva a Dio o al sovrano.
Il grande aumento del numero dei suicidi che tanta preoccupazione suscitò negli osservatori e negli studiosi europei nella seconda metà dell’Ottocento era iniziato almeno un secolo prima, e non fu provocato solo (e neppure principalmente) dalla diminuzione dell’integrazione e della regolamentazione sociale come pensava Durkheim, ma dalla crisi e dal declino di quell’insieme di norme, di sanzioni, di credenze, di simboli e di riti, di categorie interpretative, di repertori di modi di pensare e di agire che per molti secoli avevano scoraggiato gli uomini e le donne dell’Europa a togliersi la vita. L’abrogazione delle leggi che condannavano il suicidio fu solo l’ultimo atto di un processo di cambiamento che, anche se in momenti diversi, investì tutta l’Europa, occiedentale e orientale. Sarebbe un errore pensare che questa abrogazione fosse stata prodotta solo dall’illuminismo, dalle prese di posizione e dalle richieste di un gruppo di grandi intellettuali europei, come Montesquieu, Beccaria e Voltaire. Sicuramente i loro scritti ebbero grande risonanza e influenza, oltre che sulla élite colta, anche sui sovrani illuminati. Ma il pensiero di questi e di altri intellettuali era in realtà espressione di un cambiamento di mentalità iniziato molto tempo prima. Tale cambiamento cominciò negli ultimi decenni del Cinquecento e nei primi del Seicento, quando alcune personalità di spicco della cultura europea, filosofi, drammaturghi, commediagrafi, persino teologi, presero a interrograsi sulla liceità della morte volontaria e criticarono severamente la concezione cristiana che lo considerava il peccato più grave. La trasformazione divenne più ampia e profonda quando entrarono in crisi i vecchi schemi interpretativi e il suicidio fu spiegato non più con cause sovrannaturali, con la possessione diabolica e la mancanza di fedi in Dio, ma naturali, prima con la malinconia e il cattivo funzionamento degli organi ipocondriaci, la milza, il fegato, la vescica e l’utero, poi con problemi del cervello e del sistema rvoso. Così, grazie a questo cambiamento culturale, a questo processo di secolarizzazione e medicalizzazione, il suicida fu considerato non più come un criminale, ma come una vittima della fisiologia cerebrale e delle disgrazie della vita, una persona «degna di compassione», come scriveva Federico II nel suo editto del 1747, perché in preda alla «follia», alla «demenza», alla «malinconia».
La crisi di quel complesso di norme, di credenze e di categorie interpretative che avevano scoraggiato gli europei dal togliersi la vita fu favorita da altre, profonde trasformazioni sociali e culturali. [...] Era in corso la rivoluzione scientifica, si stava affermando la filosofia meccanicistica. Le scoperte astronomiche di nuovi pianeti facevano smarrire agli uomini le coordinate cosmologiche del passato. L’idea che l’universo fosse soggetto a leggi naturali immutabili rimetteva in duscussione molte credenze magiche e religiose, nelle potenze sovrannaturali, negli spiriti, in Satana, nelle tentazioni e nelle possessioni diaboliche, nell’efficacia della preghiera. Il principio che non esiste conoscenza certa senza dimostrazione, che ogni proposizione scientifica deve essere sottosposta al vaglio dei fatti, dell’esperienza, della sperimentazione, screditava i dogmi e le verità rilevate, così come le spiegazioni magiche e religiose degli eventi. In quel mondo, era iniziato da tempo il declino della società feudale, che, nel periodo del suo pieno sviluppo, aveva favorito la concezione del suicidio come furto. La disgregazione del suo tessuto di relazioni di fortissima dipendenza personale, caratterizzato dall’esistenza di uomini di altri uomini, faceva entrare in crisi questa concezione e rendeva plausibile l’affermazione di Montaigne che, se mi uccido, non posso essere considerato un omicida, perché sopprimo una vita che non è di altri, ma appartiene a me, allo stesso modo in cui «quando porto via quello che è mio e rubo dalla mia borsa» non posso essere condannato come ladro.
Abbiamo dunque buoni motivi per pensare che il grande aumento del numero dei suicidi, iniziato tra la fine del Seicento e i primi decenni del Settecento e continuato per tutto l’Ottocento, non fu tanto un sintomo di patologia sociale quanto piuttosto una conseguenza della crescita dell’autonomia individuale, dell’affermazione di un nuovo diritto, quello «di vita o di morte su se stesso», come recitava l’articolo 6 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, proposto e discusso nel 1793, durante i lavori per la nuova costituzione francese.
EBREI/NAZISMO
Le deportazioni ad opera dei nazisti provocarono vere e proprie ondate di morti volontarie tra gli ebrei. Stando alle migliori stime disponibili, il tasso di suicidio della popolazione ebraica (ormai ridotta a 134.000 persone) raggiunse, nel 1941 e nel 1942, il 200 per 100.000 abitanti in Germania e addirittura il 400 a Berlino. Nella capitale tedesca la quota degli ebrei sul totale delle persone che si uccisero passò dal 18% nel 1941 al 40% nel 1942, ma raggiunse addirittura il 75% nell’ultimo quadriennio di quell’anno. Complessivamente, dal 1941 al 1943, in questa città si tolsero la vita 1.279 ebrei (un numero tanto alto che per essere seppelliti nel loro cimitero dovevano aspettare in media due settimane e nell’ospedale ebraico fu istituito un reparto per ricoverare coloro che avevano tentato di uccidersi senza riuscirsi).
Consapevoli di quale fosse la sorte dei deportati, molti ebrei tedeschi si abituarono a portare con sé i barbiturici o il cianuro di potassio o a nascondere nelle scarpe due lamette da barba.
«Brutto stronzo, ficcati bene nella tua stupida testa che a decidere quanto tempo devi stare vivo e quando devi morire siamo noi e non tu» (così, un uomo della Gestapo aveva urlato a un membro delle squadre speciali, bloccate mentre cercava di unirsi a un gruppo di compagni ebrei cechi che stavano entrando nella camera a gas).
Quando le sorti della guerra divennero inevitabilmente avverse, come avevano fatto negli anni della guerra quegli ebrei che avevano perseguitato e deriso, i politici nazisti, non volendo essere colti di sorpresa il giorno della catastrofe, cominciarono a portare nelle tasche o nella borsa pastilie di cianuro di potassio e lamette da barba. Il 30 aprile 1945 si uccisero Hitler ed Eva Braun. Il loro esempio fu seguito da Goebbles e famiglia, Bormann, Himmler, dal ministro della giustiza e da quello della cultura, da molti leader regionali del partito, delle SS, da generali, da ammiragli ecc.
Errore da matita blu: Barbagli a pag. 177, ricorda l’esultanza di Achille Storace per il suicidio di un ebreo.
ETA’ CONTEMPORANEA
Durante la sua permanenza a Roma Goethe scrisse nel diario (24 novembre 1786): «Ciò che colpisce il forestiero, e che oggi è ancora l’argomento delle conversazioni di tutta la città, sono gli omicidi, del resto all’ordine del giorno. Quattro persone sono state assassinate, soltanto nel nostro quartiere, nelle ultime tre settimane». Il suicidio invece gli sembrava «completamente estraneo alla mentalità italiana. Che i romani si ammazzassero fra loro, lo sentivo dire quasi ogni giorno; ma di gente che si togliesse la vita con le proprie mani, o anche soltanto che una cosa simile si ritenesse possibile, non m’era ancora accaduto di sentire a Roma [...] Di questo popolo non saprei dire se non che è popolo allo stato di natura e che, pur vivendo in mezzo alla magnificenza e alla maestà della religione e delle arti, non è dissimile d’un capello da quel che sarebbe, se vivesse nelle caverne e nelle selve».
Oggi, in tutti i paesi occidentali, il rapporto numerico fra suicidi e omicidi si presenta capovolto rispetto a quello che Goethe aveva osservato a Roma alla fine del Settecento o che vi era stato nei secoli precedenti nell’Europa centrosettentrionale. Nel quinquennio 2001-2005, i primi sono stati commessi molto di più dei secondi. In Italia la frequenza con cui ci si uccide è stata sette volte superiore a quella con cui si uccidono gli altri, nel Regno Unito otto volte, in Belgio dieci, in Austria venti. Questo capovolgimento è l’esito di due opposte tendenze che l’aumento dei suicidi e quello degli omicidi hanno assunto nel corso dei secoli: nel lungo periodo il numero dei primi cosiderevolmente aumentato, quello dei secondi diminuito (da escludere i periodi postbellici).
I dati di cui disponiamo fanno pensare che il tasso di suicidio abbia superato quello degli omicidi molto prima nell’Europa centrosettentrionale che in quella meridionale. A Londra, ad esempio, questo è avvenuto verso il 1680, a Zurigo subito dopo, a Stoccolma nei primi decenni del Settecento, a Ginevra dopo il 1750, in Inghilterra e in Germania tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, in Italia circa un secolo dopo.
In generale, in Europa occidentale, i due processi (diminuzione suicidi, aumento omicidi) sono iniziati in momenti diversi e hanno ritimi diversi. Il tasso di omicidio crollò nel XVI secolo mentre l’aumento del numero di suicidi ebbe inizio negli ultimi decenni del Seicento.
Nel nostro paese, ancora verso la metà dell’Ottocento, il tasso di omicidio era da tre a quattro volte superiore a quello di suicidio. Nel trentennio successivo, il primo subì una netta flessione mentre il secondo crebbe lentamente. Le due curve si incontrarono nel 1890, rimasero assai vicine per un decennio e poi si allontanarono di nuovo. Da allora, se si escludono i due periodi postbellici, l’uccisione di se stessi è stata sempre più frequente di quella degli altri. Questo mutamento è avvenuto in momenti diversi nelle varie zone del nostro paese. iniziato prima nei centri urbani che in provincia, prima nelle regioni settentrionali che in quelle meridionali. Il tasso di suicidio ha superato quello di omicidio nel 1870 nelle regioni nordoccidentali e in Emilia, nel 1880 in Toscana, nel 1900 in Umbria e nel Lazio, nel 1930 in quasi tutte le regioni meridionali, in Calabria solo nel 1995.
L’antagonismo fra omicidi e suicidi, nel senso che laddove era presente uno mancava l’altro, veniva indicato, innanzitutto, dalle variazioni nello spazio (nei paesi del nord erano più frequenti i suicidi, in quelli del sud gli omicidi), in secondo luogo dai confronti fra gli strati nei quali si articolava la popolazione per confessione religiosa, livello di istruzione e ricchezza. I protestanti ricorrevano più spesso al suicidio, i cattolici all’omicidio. I suicidi prevalevano anche fra i laureati e i diplomati della scuola media superiore, gli omicidi fra chi non era mai andato a scuola o vi aveva passato pochi anni. Analogamente, i professionisti, gli industriali, i grossi commercianti e tutti coloro che disponevano di un cospicuo patrimonio familiare tendevano a togliere la vita a se stessi, mentre i disoccupai, i braccianti agricoli, gli operai dell’industria e del terziario erano più propensi a uccidere gli altri.
Secondo alcuni studiosi, per analizzare adeguatamente i due fenomeni, bisogna partire dall’idea che essi fossero causati da due processi distinti, uno riguardante la produzione della violenza, l’altro la sua direzione. Il suicidio e l’omicidio erano dunque, secondo loro, «due canali di una stessa corrente alimentata dalla stessa fonte che, perciò, non affluisce in una direzione senza togliere in egual misura flusso all’altra [...] Due manifestazioni di uno stesso stato, due effetti di una stessa causa» (Durkheim). Più volte, anche recentemente, gli studiosi si sono rifatti alla metafora della corrente d’acqua e dei suoi due canali per spiegare il rapporto tra suicidio e omicidio. Entrambi sarebbero prodotti da una forte frustrazione, dal fallito raggiungimento di un fine e dalla mancata soddisfazione di un bisogno e di un desiderio. [...] Tuttavia, a ben vedere, la teoria della corrente d’acqua e dei suoi canali non ci aiuta a spiegare lo straordinario processo plurisecolare di diminuzione degli omicidi e di aumento dei suicidi. [...] La diminuzione degli omicidi e l’aumento dei suicidi possono essere ricondotti a numerosi cambiamenti, fra loro in gran parte indipendenti, avvenuti in Europa. Innanziatutto, mutò radicalmente la valutazione morale di queste due azioni e l’uccisione degli altri iniziò a essere considerata molto più severamente di quella di se stessi.
RAPPORTI
Gli immigrati si ammazzano più spesso degli autoctoni, i bianchi più dei neri (2,4 volte), gli uomini più delle donne (nonostante queste siano più esposte alla depressione).
Si stima che, nei paesi occidentali, per ogni suicidio consumato ve ne siano almeno dieci tentati. Fra coloro che riescono a togliersi la vita e quelli che ci provano senza successo vi sono rilevanti differenze. Fra i primi prevalgono gli uomini e gli anziani, fra i secondi le donne e i giovani. Il gesto dei primi è di solito pianificato con cura, quello dei secondi è più frequentemente impulsivo.
In Europa, nell’ultimo secolo e mezzo, vi è stato qualche cambiamento riguardo ai metodi impiegati dalla gente per togliersi la vita. Immutata è rimasta tuttavia la differenza fra la popolazione femminile e quella maschile, nel senso che la prima continua a scegliere mezzi meno letali: l’avvelenamento e, un tempo, l’annegamento invece delle armi e dell’impiccagione, preferiti dalla seconda. E questo avviene perché le donne sono meno abituate a far uso della violenza e al tempo stesso più preoccupate che il loro corpo e i lineamenti del loro viso non vengano alterati. La scelta del metodo dipende per altro anche dal ceto sociale di appartenenza. In Italia, sia fra gli uomini che fra le donne che decino di togliersi la vita, l’impiccagione è scelta tanto più spesso è basso il livello di istruzione. La precipitazione è invece tanto più frequente quanto più elevato è il titolo di studio.
«Si può quadi dire che la miseria protegge», scrisse Durkheim analizzando le relazioni fra economia e suicidio. Nell’ottobre del 1929, con il crollo della borsa di New York, iniziò la più grave crisi conosciuta dai paesi occidentali. Scoppiata negli Stati Uniti si propagò all’Europa nel 1930 ed ebbe grandi ripercussioni economiche, sociali e politiche. Fallirono banche, compagnie di assicurazione, imprese private. Il numero dei disoccupati salì fortemente, mentre la ricchezza della famiglie si idusse. Crebbe anche il tasso di suicidio, ma con tempi e intensità diversi a seconda dei paesi. L’aumento più forte in Austria, negli Stati Uniti e in Spagna, più contenuto in Germania e in Inghilterra, mentre non avvenne per nulla in Italia.
In Inghilterra, tra il 1964 e il 1975 si verificò un forte calo dei suicidi (da 5.714 scesero a 3.693). Ed esso non dipese dall’aumento dell’integrazione sociale (visto che a crescere in quel periodo furono divorzi, tasso di criminalità e disoccupati) ma che a partire dalla fine degli anni Cinquanta il gas derivato dal carbone, che aveva un’alta concetrazione di monossido di carbonio, fu sostituito dal gas naturale, molto meno tossico. Fino ad allora, la metà degli inglesi si uccidevano lasciando aperti i rubinetti del gas della propria abitazione. Il passaggio al gas naturale rese sempre più difficile servirsi di questo mezzo per togliersi la vita, cosicché il numero dei suicidi commessi ricorrendo al monossido di carbonio diminuì rapidamente, passando da 2.368 nel 1963 a 23 nel 1975. E gli inglesi, non potendo più servirsi del gas, invece di seguire altre strade rinunciarono a togliersi la vita.
In Italia, negli ultimi vent’anni, il tasso di suicidio si è mantenuto piuttosto stabile, sul 7 o 8 per 100.000 abitanti.
Nell’Ottocento ci si ammazzava più nei centri urbani che nelle campagne (o nei paesi). Mentre nel novecento il rapporto è mutato fino a capovolgersi negli ultimi decenni.
Complessivamente i suicidi negli ultimi quarant’anni hanno toccato il loro minimo storico perchè nei paesi occidentali, un numero crescente di persone ha iniziato a interpretare in modo diverso il dolore mentale, a ritenere che l’ansia, l’angoscia, il panico, le fobie, la maliconcia paralizzante, le crisi di mania, i deliri, le allucinazioni non siano né norali né ineluttabili e a rivolgersi a uno specialista per farsi curare.
Salvare una vita costa all’incira 20.000 dollari. Questo perché è stato calcolato, con criteri discussi ma molto rigorosi, che ogni 200 mila pillole di serotoninergici (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina: sostanze che riequilibrano i disturbi nella trasmissione nervosa che si instaurano nel corso della depressione) si evita un suicidio. Dieci pillole costano circa un dollaro.
I marxisti condannavano il suicidio come una forma di individualismo borghese. Il suicidio era visto come una forma di diserzione, frutto della debolezza, del pessimismo, dell’egoismo, della errata tendenza a mettere i propri bisogni e i propri desideri al di sopra di quelli del collettivo.
Nel 1911, all’età di settentun anni, il socialista francese Paul Lafargue si tolse la vita, insieme alla moglie Laura. Scrisse una breve lettera di commiato: «Sano di corpo e di spirito mi uccido prima che l’inesorabile vecchiaia, che mi toglie uno a uno i piaceri e le gioie dell’esistenza e che mi spoglia delle mie forze fisiche e intellettuali, non paralizzi la mia energia, non spezzi la mia volontà e non mi riduca a essere un peso per me e per gli altri». La moglie Laura di cognome faceva Marx ed era la figlia di Karl.
Il numero annuo di suicidi - osservò nel 1846 Karl Marx - non è altro che «il sintomo della deficiente organizzazione della nostra società».
In Russia, fondamentale il rapporto suicidi consuno di vodka.
MARTIRI
La svolta in "missione suicida" dei suicidi altruistici il 23 ottobre 1983 quando a Beirut, un militante di Hezbollah sacrificò la sua vita per lanciarsi a tutta velocità, con un camion carico di bombe, dentro un edificio del quartier generale dei Marines, uccidendone un gran numero.
Anche se la tesi che le missioni suicide sono dovute solo al fondamentalismo islamico non corrisponde alla realtà, è indubbio che le preferenze religiose e ideologiche possono ostacolare o favorire il loro uso. Le organizzazioni terroristiche o di guerriglia che si ispirano al marxismo o quelle che cercano di rappresentare le esigenze e gli interessi di popolazioni di tradizione cristiana o buddista non fanno di solito ricorso agli attacchi suicidi. Per fare solo un esempio, i militanti dell’Ira (o Esercito repubblicano irlandese) si sono talvolta immolati per la loro causa con gli scioperi della fame e hanno ucciso civili e militari britannici, ma non hanno mai fatto uso degli attacchi suicidi. Lo stesso si può dire dell’Eta in Spagna, delle Brigate rosse in Italia e dei gruppi di ribelli e rivoluzionari che hanno agito nell’America latina.
Le missioni suicide sono state un’innovazione culturale, concepita da piccoli gruppi di pionieri che hanno elaborato anche una ideologia per legittimarne l’uso in determinate condizioni. Ma i principi, le credenze, i miti, le categorie interpretative di questa ideologia si richiamano al repertorio culturale dei popoli che, sia in Medio Oriente che in Asia, questi piccoli gruppi hanno cercato di rappresentare e di difendere.
Consideriamo, ad esempio, le Tigri del Tamil, l’organizzazione che per prima ha fatto propria l’innovazione introdotta da Hezbollah e che se ne è servita adattandola alla propria situazione. Le Tigri del Tamil hanno sempre attribuito un’enorme importanza al sacrificio di sé dei militanti. Già nel 1974, tredici anni primi di lanciare la prima missione suicida, esse obbligavano i propri componenti a portare al collo una striscia di pelle contenente una fiala di cianuro, chiamata kuppi, e ad addentare questa fiala nel caso in cui stessero per essere catturati, in modo che il veleno potesse entrare direttamente nel sangue dalle gengive lacerate dalle schegge di vetro.
Oggi la regione a nord dello Sri Lanka dove vivono i tamil è piena di templi eretti per coloro che hanno fatto dono di sé e che meritano il titolo di mavirar o «grandi eroi». Essi vengono ricordati e solennizzati con gli stessi riti riservati alle divinità e ai santi, decorando i templi con offerte di fiori e di olio.
Nel calendario tamil vi sono dieci giorni di commemorazioni e celebrazioni. Il più importante è il 27 novembre, durante il quale è previsto che il leader del movimento, Velupillai Prabhakaran, pronunci un’orazione in onore dei «grandi eroi». Il 5 luglio, chiamato giorno delle Tigri nere, è dedicato al «capitano Miller» che nel 1987, in quello stesso giorno, guidò un camion carico di esplosivi contro un gruppo di soldati singalesi. Il 19 aprile e il 26 settembre sono rivolti alle commemorazioni di altri due militanti, morti nel digiuno di protesta che hanno fatto contro la presenza nel loro territorio di alcune unità dell’esercito indiano.
Queste idee, queste credenze, queste concezioni della vita e della morte, questi valori e questi riti sono almeno in parte frutto della capacità creativa dei leader di Ltte. Ma difficilmente avrebbero potuto essere proposte in Occidente o in molti paesi dell’America latina o dell’Africa. Sono risultate invece credibili e convincenti nello Sri Lanka, perché si ricollegano ai temi di una lunghissima tradizione, quella dell’induismo, che ha sempre attribuito una enorme importanza al sacrificio di sé non solo passivo, ma anche aggressivo, non solo per, ma anche contro qualcuno, cioè ai tipi di suicidi commessi per protesta e per vendetta.
Simile è la strada seguita dalle organizzazioni arabe. Per la verità, fra i teologi e i giuristi di tradizione islamica vi sono stati vivaci dibattiti sul significato delle missioni suicide e questo non sorprende, visto che nel Corano (come per altro nella Bibbia) non vi è un giudizio chiaro e di interpretazione univoca sulla morte volontaria. In quattro passi, esso sembra voler affrontare la questione, ma lo fa in maniera tale che le letture che ne sono state date sono assai discordanti. certo tuttavia che, almeno dall’VIII secolo, la hadith, cioè la letteratura della tradizione orale che raccoglie i detti del profeta Maometto, ha condannato più volte il suicidio come peccato grave.
A proposito di un uomo ferito che si era ucciso si legge in uno dei punti più spesso citati Dio aveva detto: «Il mio servitore ha anticipato la mia azione togliendosi la vita con le proprie mani: per questo non sarà ammesso in paradiso».
Il suicidio fu considerato un atto di rivolta contro Dio e chi lo commetteva correva il rischio di provocare la sua ira e di essere punito con il fuoco. Chi si uccideva era condannato a ripetere continuamente il suo gesto all’inferno. Il giudizio dell’islamismo su questo atto fu tanto severo che una fatwa (cioè un parere legale di un giureconsulto) dell’XI secolo giunse a considerare il suicidio più severamente dell’omicidio (come, per altro, fece per molto tempo il cristianesimo). Nella pratica sono stati considerati con indulgenza solo i suicidi commessi dai capi militari dopo una sconfitta, per evitare la tortura e l’umiliazione.
In certi casi, fu vietato pregare per le persone che si tolgono la vita. La tradizione vuole inoltre che Maometto abbia rifiutato la sepoltura a una persona che si era uccisa. Tuttavia, nelle popolazioni di religione islamica è consuetudine celebrare un rito funebre anche per i suicidi.
Questi principi morali sono stati ribaditi più volte negli ultimi decenni e sono ancora oggi dei punti fermi nel mondo islamico. I risultati delle inchieste mostrano che la quasi totalità degli algerini, dei sauditi, degli egiziani, degli iraniani, dei marocchini e dei turchi pensa che il suicidio non sia mai giustificato, mentre la quota degli occidentali che è dello stesso parere va dal 28 al 57%, a seconda del paese.
Anche i musulmani che vivono nelle grandi capitali europee, a Londra, a Parigi e a Berlino, condividono completamente i principi morali di quelli che sono rimasti nel paese di origine e condannano moralmente la morte volontaria. Inoltre, sia i paesi di tradizione islamica, sia le popolazioni con questa fede religiosa che vivono in stati in cui sono una minoranza, hanno sempre avuto tassi di suicidio estremamente bassi.
Gli islamici che alla metà del Novecento risiedevano a Ceylon si toglievano la vita molto meno spesso dei tamil. La popolazione araba che vive oggi in Israele si uccide meno frequentemente di quella ebraica.
Ma ciò non ha impedito alle autorità religiose islamiche di dare un giudizio del tutto diverso sulle missioni suicide. Alcuni teologi e giuristi hanno negato che esse siano lecite, sia perché provocano stragi di civili indifesi, come donne e bambini, sia perché sono accuratamente preparate e dunque «premeditate». Tuttavia, la posizione che alla fine ha prevalso, fra i teologi e i giuristi, si basa sulla contrapposizione fra il suicidio e l’atto di chi si fa esplodere per uccidere i nemici.
Il primo è espressione di debolezza, di viltà, di desiderio di diserzione e di fuga, il secondo invece è una forma di nobile sacrificio compiuto da una persona coraggiosa e con una volontà di ferro. Il primo pone fine a un periodo di disperazione, il secondo segna l’inizio di una nuova fase di speranza e di serenità. Il primo va dunque condannato e scoraggiato, il secondo esaltato ed emulato.
Questa posizione è stata condivisa da un’altissima quota della popolazione islamica di alcuni paesi . Nel 2002, hanno dichiarato di considerare sempre o talvolta giustificate le missioni suicide tre quarti dei musulmani che vivevano in Libano e quasi la metà di quelli che risiedevano in Giordania, nel Bangladesh in Nigeria. Nel 2007 ha espresso la stessa opinione il 70% della popolazione dei territori palestinesi.
E nato così il culto dei martiri che si facevano esplodere per uccidere i nemici. Il vocabolario arabo si è arricchito di nuovi termini per indicare varie forme di sacrificio di sé. Al termine martire (shahid) si sono aggiunti «operazione martirio», «chi fa dono di sé con il martirio», «martire che muore in battaglia». «martire felice» (shahid as said) e perfino «martire non intenzionale» (shahid al mazlum).
Quest’ultima espressione è stata introdotta da Hezbollah per indicare il passeggero seduto a fianco all’autista di un camion carico di esplosivo, quando Israele, partendo dall’assunto (erroneo) che i kamikaze agissero sempre da soli, ha stabilito la regola che nella zona occupata potessero circolare solo autocarri con due guidatori. Così, per descrivere un attacco suicida, si è iniziato a chiamare «martire felice» l’autista e «martire non intenzionale» il suo compagno.
Il culto di questi martiri ha avuto varie espressioni. Molti dei palestinesi che si sono immolati hanno lasciato una cassetta video con la registrazione del testamento spirituale. Ripresi dritti in piedi, con il Corano e un fucile kalashnikov in mano e la bandiera del gruppo a cui appartengono sullo sfondo, essi si rivolgono agli altri chiedendo di raggiungerli in paradiso.
Le loro azioni sono state magnificate dai media e nelle moschee. La loro morte viene di solito descritta non come una fine, ma come un nuovo inizio; il loro funerale come un matrimonio, perché in paradiso sposano un gran numero di donne dagli occhi neri. A questi eroi vengono intitolate molte strade di grandi e piccoli centri. Le loro foto sono esibite durante le manifestazioni politiche e religiose o riportate nel calendari per ricordare il «martire del mese». I loro familiari ricevono riconoscimenti e ricompense simboliche ed economiche, Così, per fare un esempio, nel 2001, Hamas dava loro una somma iniziale compresa fra i 500 e 15.000 dollari e una mensile di circa 100 dollari. L’11 novembre è stato proclamato «giorno dei martiri» per ricordare la prima missione suicida organizzata da Hezbollah nel 1982.
In parte diverso è il salafismo jihadista, una ideologia religiosa che ha assunto una grande importanza da quando è iniziato il processo di globalizzazione delle missioni suicide. La quota dei gruppi che si richiamano a tale ideologia, sul totale dei gruppi che organizzano queste missioni, è passata dal 17% nel 1998 al 25% l’anno dopo, per raggiungere il 67% nel 2000 e il 70% nel 2006. Il salafismo (da salaf, che in arabo significa predecessori, antenati) è una dottrina islamica radicale che propugna un ritorno alla purezza delle origini, al Corano, non contaminato dai compromessi politici e dalle influenze del mondo occidentale.
per sua natura internazionalista, perché ritiene che gli insegnamenti dell’islam valgano per tutti i paesi e tutti i popoli. Esso annuncia il declino dell’islam dal punto di vista religioso, politico, economico e militare, ne attribuisce la colpa all’Occidente, si propone di ridefinire e rafforzare l’identità dei musulmani disorientati, esaltando la loro appartenenza alla umma, la comunità islamica globale, e presenta un programma di guerra, basato anche sulle azioni suicide, per invertire la tendenza e ritornare agli antichi splendori. Riaffermando la legittimità e la necessità del tafkir (l’equivalente della scomunica nel mondo cattolico), sostiene che la guerra vada combattuta non solo contro gli «infedeli» (gli occidentali), ma anche contro i regimi islamici «apostati».
Anche qui ci troviamo di fronte a innovazioni introdotte dai leader di questi gruppi, per incoraggiare e sostenere i militanti disposti a sacrificare la vita per la causa, che tuttavia si riallacciano alla tradizione culturale del proprio popolo. Il concetto di jihad ha sempre avuto una enorme importanza nella storia di questo popolo. In arabo significa sforzarsi, darsi da fare, impegnarsi, per la propria religione. Ma da tempo viene tradotto con l’espressione «guerra santa», con «un’azione militare volta all’espansione dell’Islam e, eventualmente, alla sua difesa».
Secondo la religione islamica, il martire che muore combattendo per questa causa contro gli infedeli riceve numerose ricompense. Innanzitutto, la garanzia di una vita dopo la morte e l’ingresso nel paradiso. «Non chiamate morti coloro che sono stati uccisi sulla via di Dio dice un versetto del Corano Sono, invece, vivi presso il loro Signore, e godono della sua provvidenza». Qui egli può avere molte delle cose desiderate che gli erano vietate in terra: cibo raffinato e squisito, vino, abiti d’oro e di seta, bellissime donne dai grandi occhi neri (hur’ni). Prima ancora che il sangue delle sue ferite si sia seccato, due di queste lo raccoglieranno. Ma, appena arrivato in paradiso, ciascun martire avrà settantadue vergini che gli daranno grandi piaceri. Collocato a livelli altissimi, immediatamente sotto Dio e i profeti, egli ha il privilegio di poter intercedere a favore di musulmani il giorno del Giudizio. Secondo alcuni testi, può farlo addirittura per settanta dei suoi familiari.
Naturalmente, questo non deve portarci a trascurare il fatto che, come osservava alla fine dell’Ottocento lo scienziato politico Gaetano Mosca, «se ogni credente conformasse la sua condotta a quanto assicura il Corano, ogni volta che un esercito maomettano si trova di fronte al miscredenti dovrebbe vincere o perire fino all’ultimo uomo». Non si può negare che un certo numero di individui si comporti conformemente al detto del Profeta, ma la maggioranza preferisce per ordinario la sconfitta alla morte, benché accompagnata dall’eterna beatitudine.