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 2009  marzo 16 Lunedì calendario

SCRITTORI E SOUBRETTES TRA GLI EROI DEL PEDALE


C’era qualcosa che non funzionava nella vecchia Milano-Sanremo, cha sabato festeggerà la 100ª edizione. E questo qualcosa rendeva inquieto Eddy Merckx. Quando Eddy Merckx si sentiva inquieto succedeva che gli altri corridori si sentivano terrorizzati. Se l’inquietudine del belga si manifestava alla vigilia della Classicissima, allora erano dolori. Poteva succedere che qualcuno, anche di buon nome e di buon blasone, dicesse: «Be’, se lui ha la luna storta, io quasi quasi mi ritiro in partenza». Ma da che cosa dipendeva l’inquietudine del mangiatraguardi fiammingo? Eddy trovava che troppe vittorie ottenute alla Milano-Sanremo si somigliassero. Tutte in una certa maniera, troppe volate, ci volevano delle novità. Decise di vincerne una mezza dozzina e in modo vario, attaccando una volta qui e una volta là, arrivando oggi per distacco e l’anno dopo in volata, salutando la compagnia sull’ultimo cocuzzolo o in qualsiasi altro posto gli suggerisse l’estro. Vincenzo Giacotto, che Merckx ammirava molto perché oltre a essere il suo capo era anche più alto di lui e fumava come un turco e Eddy aveva paura del fumo, Vincenzo Giacotto gli disse tranquillamente con un fare perfino annoiato: «Perché soltanto una mezza dozzina? Il numero sette non ti piace?». Gli piaceva, a Merckx, il numero sette e così se ne prese sette di Milano-Sanremo. Gimondi diceva: «Io lo guardo e mi chiedo». «Che cosa ti chiedi, Felice?». «Nulla, perché mi si gelano i pensieri. Quando Merckx parte per vincere non ci sono domande da fare, né agli altri né a se stessi».
Fausto Coppi preparava la Sanremo con eleganza. Poche parole. Qualche sorriso triste. Era gentile, con le persone gentili. Meno con chi non stava alle regole. Le sue. Loretto Petrucci vinse due volte la Classicissima. Sembra senza la benedizione di Coppi. Il proseguimento della sua carriera ebbe qualche fastidio. Coppi non andava pazzo per la Sanremo. Ne conquistò tre. Figuriamoci se ne fosse stato innamorato. Ma Coppi era una sirena, una calamita. Magnetizzava e non soltanto gli abitanti del pianeta ciclismo. La Classicissima aveva una lunga coda di suiveurs. C’era di tutto in quella coda, vi si incontravano attori, cantanti, registi, scrittori. Volevano vedere Coppi, parlare con Coppi. Un grande teatro, il più emozionante viaggio verso il sole, che spesso era un viaggio verso la pioggia. Liriche presentazioni, aggettivi turgidi, sviolinate da capogiro, osanna, ritratti iperbolici dedicati anche a corridori minori. Tutti vagheggiavano il trionfo e più era improbabile che lo raggiungessero più lo vagheggiavano. Il guerriero Claudio Chiappucci, detto El Diablo, esclamava drammaticamente: «Darei il cielo per vincere a Sanremo». Gli facevano notare che il cielo non era suo. Si incavolava. Nel 1991 vinse. Aveva sempre sognato un titolo enorme sulla prima pagina della Gazzetta dello Sport. Vinse il giorno dello sciopero dei giornalisti. Il giorno dopo non c’era nulla sulla Gazzetta, non c’era neppure la Gazzetta. « stato Bugno - sibilò -. Scommetto che la colpa è sua». Gianni Bugno, il pedalatore dalla squisita figura, era il suo sommo rivale. Aveva brindato a Sanremo l’anno prima.
Pratolini, Buzzati, Campanile con il monocolo, Billi e Riva, Aldo Fabrizi. Auto ammiraglie traboccanti non soltanto di tecnici e tattici, ma anche di celebrità. L’infantile entusiasmo della folla da Voltri al traguardo dava la sveglia ai ricordi. Anno 1939, Gino Bartali. E poi ancora Bartali nel 1940 e ancora Bartali 7 anni dopo. E ancora Bartali nel 1950: undici anni dopo lo sparo iniziale! Bisognava vederlo allo sprint: una furia. Ma non era un grimpeur? A Sanremo, si convertiva al velocismo.
Il percorso della Milano-Sanremo era elementare. Oggi con gli zampellotti finali emette qualche ruggito. La principale difficoltà della Classicissima stava proprio nel fatto che si svolgesse sopra un tracciato elementare. Non c’erano particolari punti scoglio per organizzare l’attacco. Chiappucci partì alla lontana, alla vecchia maniera, fece del ciclismo eroico. Fu un misto di Lucien Petit Breton e Raymond Poulidor. Sorprese tutti. Alla conferenza stampa dichiarò: «Non ci volevo credere». El Diablo all’attacco sin dal Turchino, una pazzia.
«A me - raccontava Bartali - bastava guardare le facce. Quello è mezzo cotto, quell’altro è cotto del tutto. Vai, Gino, è il momento». Lungo la strada c’erano i bambini con il grembiulino blu e il colletto bianco che sventolavano le bandierine tricolori. Anche le suore con i cappelloni ad ala sventolavano le bandierine. C’erano gli sposi freschi di giornata. Quando ci sposiamo, amore? Il giorno della Sanremo. Ed eccoli lì, lui con l’abito blu, lei tutta di bianco con il bel mazzetto di fiori. Tesoro, l’hai visto Gimondi? Io no, e tu? Io neanche. Però ridono, salutano il gruppo, sono contenti.
A una Milano-Sanremo, Achille Campanile, raffinata stella dell’umorismo, fu ospite della vettura della Rai. Gli spiegava il ciclismo un giovanissimo Adriano De Zan. Campanile voleva conoscere Coppi. Gli scappò d’improvviso il desiderio di conoscerlo durante la salita del Turchino. De Zan gli disse: «Maestro non è possibile». Campanile giurò che Coppi sarebbe stato felicissimo di conoscerlo proprio lì sul Turchino. Nell’auto della Rai non gli dettero retta. Campanile non aprì più bocca sino ad Albenga. Giunti ad Albenga la vettura della Rai rasentò una pattuglia con dentro il Campionissimo. Campanile apri a razzo il finestrino, si sporse come se volesse buttarsi di sotto e cominciò a gridare: «Coppi, Coppi, sono Achille Campanile, piacere vivissimo, mi faccia la cortesia di vincere». Fausto non vinse, ma che giornata per Campanile.
«Sapete, ragazzi - disse Felice Gimondi alla fine della sua grande Sanremo del 1974 -. Passando da Imperia ho visto in un giardinetto un papà che giocava col suo bambino. Un’immagine d’un attimo, ma l’ho vista. M’è venuta voglia di smettere, basta, devo essere un papà anch’io, ho pensato, devo essere un uomo qualsiasi e portare mio figlio ai giardinetti».