Gemma Contin, Liberazione 12/3/200/, 13 marzo 2009
LEGGENDARIO "JOE" PETROSINO, IL POLIZIOTTO PIU’ AMATO DAGLI AMERICANI
Si festeggia, oggi a Palermo, su iniziativa dell’amministrazione comunale retta dal sindaco Diego Cammarata, con reboanti dichiarazioni dell’assessore alla Cultura Giampiero Cannella, la ricorrenza del centenario dell’uccisione del primo poliziotto morto per mano della mafia, che allora non si chiamava ancora Cosa Nostra - sarà chiamata così, ufficialmente, ottant’anni dopo, solo in seguito alle rivelazioni di Tommaso Buscetta a Giovanni Falcone - ma faceva tremare le vene e i polsi con il nome di La Mano Nera.
Ché quello era il simbolo con cui i mafiosi "firmavano" le estorsioni, le minacce e i loro delitti. E con cui marchiavano interi territori, quartieri, pezzi di città, a indicare che quella strada, o anche solo un vicolo lercio, o uno slargo pieno di fango e di rifiuti, erano "sotto controllo" o "sotto protezione".
Si festeggia, ma non c’è niente da festeggiare, per la morte di Joe Petrosino. Piuttosto da riportare alla luce "a futura memoria" e come monito tuttora attuale.
Ed è per questo che magistrati, avvocati, professori, studenti, e tanti palermitani onesti, si ritroveranno lì, sul luogo dell’agguato, alla cancellata di Piazza Marina, dove quell’uomo è stato ammazzato come un cane, mentre passeggiava pensieroso, solo come un cane, in una tiepida sera di quel venerdì 12 marzo 1909, a un quarto alle nove, mentre scende l’imbrunire dei lunghi crepuscoli di una primavera acerba, quando dalla vicina Cala arriva il respiro del mare carico di salsedine, di profumo di rosmarino, del lezzo di pesce e di tutti gli odori mediterranei, ad accarezzare le radici aerei e le dense volte verdiblù dei ficus secolari della villa.
Come sempre avverrà anche in seguito, per tutti i delitti di mafia che verranno - di altri poliziotti e magistrati, di politici e giornalisti, delitti eccellenti e non, a centinaia - anche quella sera, in quel tratto di piazza e di vicoli della marina vecchia, poco prima delle luci sfavillanti del Foro Italico, nell’ansa di mare che sembra rientrare tra le case, dove allora erano ormeggiate le barche dei pescatori e oggi i fuoribordo e i motoscafi da diporto, di colpo calò il silenzio più nero, dopo la gragnuola di spari - tre in successione al corpo, uno, il colpo di grazia, in testa - tanto improvvisi quanto a lungo, e strategicamente, orchestrati.
E di colpo fu come se la città si fosse spenta e brancolasse nel buio. In una tenebra fitta e in un silenzio impenetrabile come quello che si ritrovarono davanti non solo le autorità di polizia italiane, ma anche gli investigatori americani, mandati apposta dal governo degli Stati Uniti.
Che sennò non si può ammazzare così il poliziotto più famoso del momento, un italo-americano partito dalla sperduta Padùla, un altro profondo Sud dimenticato in provincia di Salerno, e approdato bambino a New York, a fine Ottocento, con tutta la sua famiglia di migranti morti di fame, passati dalle forche caudine e dai lavatoi e disinfestatoi pubblici di Ellis Island. Una specie di Lampedusa dell’epoca.
Joe Petrosino si chiamava. Era l’ultimo figlio di un sarto di nome Prospero che stremato dalla povertà e dalla fame aveva preso su le sue creature, la moglie e una valigia scassata, vuota di beni e piena di speranza, e dopo un viaggio in terza classe su un "vapore" partito da Napoli, era sbarcato nel lazzaretto degli immigrati in attesa di visto d’ingresso.
E finalmente erano stati avviati in uno di quegli edifici fatiscenti, le five cent houses : case da cinque centesimi, messe a disposizione dalla municipalità in Mulberry Street per ospitare quei disgraziati.
Il piccolo Giuseppe, che solo da grande da poliziotto e da morto diventerà il leggendario Joe Petrosino, va fare il lustrascarpe e lo strillone; ma si impegna, vuole studiare, va a scuola di americano; porta a casa ogni sera qualche moneta sonante per aiutare a migliorare le condizioni della famiglia; riesce, una volta maggiorenne, a ottenere la cittadinanza americana e a farsi assumere nella nettezza urbana, che allora era un reparto della polizia cittadina.
Ma l’ambiente degli immigrati e dei quartieri italo-americani è attraversato ed esposto alle vessazioni della criminalità di cui Petrosino non può non accorgersi, vivendoci in mezzo, parlando la stessa lingua, capendone gli slang, i motti, i gesti, gli ammiccamenti.
Vede, capisce, forse riferisce. Sta di fatto che viene arruolato nel 23esimo distretto e si trova così, immediatamente, dall’altra parte della barricata.
Dalla parte di chi deve fare i conti con le gang, con il fenomeno del gangsterismo, da quello spicciolo, che taglieggia nel quartiere, a quello delle bande organizzate più feroci, che sparano e uccidono per le strade, nei locali, fanno saltare automobili e negozi, bancarelle e bar. La logica è che chi non paga coi soldi paga col sangue.
Non molto diverso da un secolo dopo, al di là e al di qua dell’Atlantico.
E poi c’è quell’andirivieni di nuovi immigrati "con la coppola", di nuove "famiglie" nelle cui valigie non arriva la miseria dei paesi di origine ma traffici di ogni specie, di "picciotti" che controllano le vie dei contrabbandi, il mercato dell’alcol (siamo in pieno proibizionismo) e dell’oppio, che organizzano la prostituzione e il gioco d’azzardo, che spadroneggiano a Little Italy, a Brooklyn, e poi su nella sequenza gerarchica, nella scala della ricchezza, fino a Long Island, a Queens, nel New Jersey, in Pennsilvanya, nel Connecticut; dove vanno addensandosi gli "affari" e le alleanze o le guerre tra le famiglie siciliane i cui nomi sono quelli di sempre: Madonia, Cascio Ferro, e poi Gambino, Bonanno, Genovese, Lucchese, fino ai famosissimi Lucky Luciano e Frank Coppola "tre dita".
Arriveranno dopo anche gli Inzerillo, i Badalamenti, i Bontade, i Calì; ma siamo cinquant’anni dopo, e siamo già a oggi.
All’inizio del Novecento, quello che sarebbe diventato la leggenda di Joe Petrosino, era solo un agente dotato di uno straordinario fiuto investigativo e di un’esperienza personale a diretto contatto con l’ambiente della malavita italo-americana. Un "vissuto" che gli consentiva di capire le dinamiche, le relazioni, i legami tra le bande organizzate che tenevano sotto scacco New York e le famiglie di origine che operavano in Sicilia.
E’ per questo che, "venerato in patria", ammirato dal presidente Theodore Roosevelt per le brillanti operazioni contro il gangsterismo che produssero 2500 arresti e 500 espulsioni, insignito di medaglia al valore e con il titolo di tenente della polizia investigativa della città di New York, in una fredda mattina atlantica del 9 febbraio 1909, imbarcato "in incognito" per un’indagine oltreoceano su strane connessioni tra mafia e politica (guarda un po’!), quel piccolo uomo tarchiato, appena un metro e sessanta ma con spalle possenti e muscoli d’acciaio, animato da un sordo rancore contro i delinquenti italiani che infestavano il suo "sogno americano", abbigliato con vestito scuro, camicia bianca, cappello a tesa rigida, dopo un viaggio funestato dalle improvvide dichiarazioni del suo capo che ne avevano svelato la "missione segreta", era sbarcato a Palermo e si era messo in caccia.
Ma la caccia si ferma quasi subito, perché inspiegabilmente, dopo aver raccontato a mister Bishop, il console americano di Palermo, della sua intenzione di estendere le indagini non solo ai mafiosi ma anche ai notabili candidati alle prossime elezioni e a elementi collusi della politica e dell’imprenditoria, a fronte degli accertamenti programmati al Tribunale di Palermo, trova i fascicoli vuoti e le cartelle penali degli indagati deliberatamente cancellate, abrase, quando non del tutto scomparse.
Era andata meglio a Caltanissetta, dove Petrosino era riuscito a trovare intatte preziose informazioni e documenti sui pregiudicati di mafia, ottenendo riscontro e conferma ai sospetti su strane protezioni nei palazzi del potere nei confronti di noti mafiosi.
Per questo tornava solo e pensieroso, quella sera del 12 marzo, risalendo dalla Cala verso Piazza Marina, dov’era il suo alloggio all’Hotel de France e dove aveva un appuntamento con un informatore. Ma lì non c’è più arrivato.